Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

A cinquant’ anni dalla sacrosantum concilium urgenze per il futuro

30/08/2013 01:00

ENZO BIANCHI

Conferenze archivio,

A cinquant’ anni dalla sacrosantum concilium urgenze per il futuro

ENZO BIANCHI - 30/08/2013

Bergamo, 30 agosto 2013
64a Settimana Liturgica Nazionale organizzata dal CAL 

 

Introduzione

Il nostro convegno, che si conclude con questa mia riflessione, ha voluto essere una memoria del concilio Vaticano II aperta al futuro, nella convinzione che sempre la chiesa nel suo hic et nunc, nel suo hodie, essendo istruita nel regno di Dio, sa trarre dal suo tesoro “kainà kaì palaiá”, “cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52). Proprio in questa prospettiva voglio, oggi, a cinquant’anni dalla Sacrosantum Concilium, tentare un discernimento, convinto che la dinamica messa in moto dalla riforma conciliare debba ancora caratterizzare la vita liturgica della chiesa.
Permettete però che io faccia una brevissima lettura del contesto in cui sono maturate alcune convinzioni: un contesto determinato da questi cinquant’anni segnati dalla riforma liturgica, ma anche anni in cui nella storia dell’occidente è avvenuta una rapida evoluzione antropologica, prima che socio-politica. Mezzo secolo che coincide con gli anni della mia vita cristiana vissuta ecclesialmente, nella forma monastica, mai separata dal cammino dei fratelli e delle sorelle nella fede e dalla compagnia degli uomini. Una meditazione attenta e verificata mi porta a leggere questi cinquant’anni suddividendoli in tre periodi.
Il primo fino all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, in cui si registra una ricezione convinta e sovente entusiastica della riforma liturgica. Si potrebbe dire che ciò che avevamo appreso al catechismo, cioè la volontà di Pio X circa il “tutti comunicanti all’eucaristia”, era finalmente diventato “tutti partecipanti alla liturgia”, e perciò tutti responsabili nella comunità cristiana. La certezza che la liturgia avesse Cristo come celebrante – certo il Christus totus, il Cristo totale, come affermava Agostino, nel suo capo e nelle sue membra –, che fosse Cristo a pregare, a battezzare, ad agire, ci permetteva di sentire la liturgia come azione comune sacerdotale, di tutto il corpo del Signore. Liturgie quale “loghiké latreìa”, “culto conforme al Lógos” (Rm 12,1), al Figlio sempre rivolto al Padre, e in un corpo glorioso nel quale la chiesa è stata fatta “regno e sacerdozio” (cf. 1Pt 2,9). Scriveva ancora Agostino: “Omnes sacerdotes, quoniam membra sunt unius sacerdotis” (La città di Dio 20,10).
Poi negli anni ’90 si registra una stasi nella ricezione della riforma, una certa stanchezza, contemporanea al sorgere di una certa diffidenza verso la realizzazione delle intuizioni conciliari. Inizia un’interpretazione restrittiva e si chiede anche una correzione del cammino fatto fino ad allora. L’istruzione Liturgiam authenticam, promulgata dalla Congregazione per il Culto Divino il 28 marzo 2001, viene recepita in questo senso, e l’espressione “riforma della riforma”, affermazione in sé positiva che riecheggia l’adagio tradizionale “liturgia semper reformanda”, viene assunta da parte di alcuni come manifesto per una correzione della riforma conciliare. E così nella vita ecclesiale si insinua il conflitto proprio riguardo alla liturgia, che per sua natura dovrebbe essere luogo di comunione, luogo di ricezione della pace donata dal Signore alla sua comunità (“Pax vobis!”: Gv 20,19.21.26); in tal modo si assiste nella chiesa a delegittimazioni gli uni degli altri, a scambi di accuse che si nutrono di una logica settaria e in ogni caso non conforme allo spirito del Vangelo. Tutta la chiesa ne soffre, è una chiesa “afflicta” e in una situazione di aporia, di paralisi che impedisce un futuro ecclesiale fecondo. Si registrano così tentativi nostalgici di ritorno a una presunta tradizione e, parallelamente, disordine e confusione tra i fedeli, che non riescono a comprendere…
Ma possiamo dire che oggi siamo entrati in una nuova stagione, nella quale tornano le domande vere e decisive riguardo al nostro vivere la liturgia del Vaticano II: la liturgia che oggi viviamo è in grado di essere il sito in cui i fedeli possono diventare ed essere soggetti della fede cristiana, capaci di sperimentare che cosa la fede permette di vivere, capaci di accogliere una speranza da vivere e da offrire agli altri uomini? La liturgia è capace di vincere la tentazione di diventare un non-luogo, cioè uno spazio in cui gli uomini consumano un “religioso”, un “sacro”, uno spazio in cui non trova accoglienza l’umanità reale, concreta e quotidiana assunta dal Figlio, dal Lógos nell’incarnazione divina? (cf. Gv 1,18)?
È in questo contesto che vorrei suscitare domande sul nostro futuro di credenti, convinto che la liturgia sia “culmen et fons” (Sacrosantum Concilium 10) di tutta la nostra identità, del nostro stare nel mondo. Molti sarebbero gli interrogativi in ambiti diversi, ma io mi limito ad analizzarne brevemente tre:

1. Liturgia e Parola.

2. Liturgia e vita spirituale.

3. Liturgia e appartenenza alla chiesa.

 

1. Liturgia e Parola
Nel suo intervento all’81° Katholikentag tenuto a Bamberg nel luglio del 1966 Joseph Ratzinger, dando alcune risposte alle obiezioni già allora sollevate nei confronti della riforma liturgica, indicata da lui come “segno di contraddizione” (“Le catholicisme après le Concile”, in La documentation catholique hors-série 1 [2005], p. 6), affermava che l’originalità del culto cristiano sta nel suo “essere essenzialmente annuncio della buona notizia alla comunità riunita in assemblea e accoglienza di essa da parte della comunità che risponde” (ibid.). Dunque Parola di Dio rivolta alla chiesa e parola della chiesa rivolta a Dio. Egli affermava ancora: “Purificando la Parola dal suo carattere rituale per ridonarle il suo carattere di Parola, la riforma liturgica ha compiuto un atto di importanza decisiva … La Parola si era svuotata diventando rito, e la riforma liturgica non ha fatto altro che rimettere in valore la verità della Parola e, nello stesso tempo, la verità del culto della Parola” (ibid., p. 7).
Questo tema del “culto secondo il Lógos”, secondo la già citata espressione paolina loghikè latreía (Rm 12,1), è caro a Joseph Ratzinger che sovente è tornato su di esso, con precisazioni penetranti, in quanto egli è convinto – sono ancora parole sue – che “la liturgia non consiste nel riempirci del sentimento del sacro, per mezzo di fremiti e di allusioni, bensì nel metterci di fronte alla spada tagliente della Parola di Dio (cf. Eb 4,12). Essa non consiste nel metterci in un ambiente di solennità e di bellezza per raccoglierci e meditare in pace, ma nell’introdurci nel ‘noi’ dei figli di Dio” (ibid.). Non a caso nell’Esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini (30 settembre 2010) Benedetto XVI, dopo aver parlato per la prima volta nel magistero dell’analogia Verbi (§ 7), è giunto a parlare della sacramentalità della Parola (§ 56), sacramentalità da comprendersi in analogia con la presenza di Cristo nell’eucaristia e con l’incarnazione del Verbo in Gesù di Nazaret.
Certo, l’ispirazione di tali affermazioni può essere trovata di nuovo in Agostino: “Sacramentum, [id est] tamquam visibile verbum” (Commento a Giovanni 80,3). Ma grazie all’attuale comprensione della sacramentalità della Scrittura, dovremmo cogliere diversamente la liturgia della Parola: non più come “preparazione alla messa” ma essa stessa come comunicazione di Dio, come parte dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Nell’accogliere la Parola di Dio, l’assemblea, non diversamente da ciò che avvenne al Sinai, ratifica l’alleanza e promette di realizzare ciò che ha ascoltato: “Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!” (Es 24,3). Si tratta di comprendere che “la Parola precipita in gesto sacramentale eucaristico” (Louis-Marie Chauvet) e che la Parola proclamata, predicata, ascoltata rende partecipe l’assemblea all’azione di Dio, al suo dabar, Parola-Evento, che è il mistero rivelato e celebrato.
Nel prossimo futuro un vero impegno della chiesa dovrebbe dunque essere rivolto all’acquisizione e alla comprensione di questa qualità sacramentale della Parola, senza la quale permane la patologia di un primato dell’eco della Parola di Dio detta e predicata, e non della Parola stessa. È Cristo stesso che “adest praesens in medio” (cf. Sacrosantum Concilium 7), che parla quando si proclamano le Scritture che contengono la Parola; non solo, è il Signore che opera, agisce, crea l’evento di salvezza, con una presenza testamentaria che sancisce l’alleanza con la chiesa sua sposa. Purtroppo è caduta nel dimenticatoio una preziosa sottolineatura presente nelle premesse all’Ordinamento delle letture della messa del 1981, dove uno dei compiti di chi presiede la liturgia è così espresso: “[Egli] alimenta la fede dei presenti per ciò che riguarda quella Parola che nella celebrazione, sotto l’azione dello Spirito Santo, si fa sacramento” (§ 41). La Parola di Dio viene a noi dal sacramento delle sante Scritture che la chiesa prende in mano per spezzare la Parola stessa.
Lo richiamo ancora una volta: occorre comprendere la liturgia come esegesi viva della Parola di Dio e luogo ecclesiale del discernimento e dell’esegesi della Parola stessa. La liturgia della Parola è una vera e propria cristologia in cui Cristo è l’exeghésato di Dio (cf. Gv 1,18) nella potenza dello Spirito santo. È nella liturgia della Parola che Cristo è Kýrios più che mai, che è Pantokrátor, Omnitenens (cf. Agostino, Commento al vangelo secondo Giovanni 106,5) delle Scritture, di Mosè, dei Profeti e dei Salmi (cf. Lc 24,44), perché li rende una parola, lui stesso Parola di Dio. Come ha operato la klásis toû ártou (cf. Lc 24,35; At 2,42), così opera la klásis toû lógou. Perché dunque si continua giustamente a preoccuparsi del discernere il corpo del Signore, ma non ci si preoccupa ugualmente del discernimento della parola del Signore? La liturgia è questo discernimento, perché essa è Parola di Dio sotto la forma rituale. Manca tuttora una riflessione adeguata sull’esegesi liturgica delle Scritture, dimenticando anche il fatto che i fedeli cattolici hanno il loro contatto con le sante Scritture quasi esclusivamente nella liturgia eucaristica: solo attraverso questa riflessione si potrà condurre i cristiani a vivere la verità del sacramentum quale visibile verbum! Essenziale è la Parola, non il rito che pure è necessario, ma è la Parola (dabar), la Parola-Azione di Dio che nella liturgia avviene e si epifanizza.
E infine, non è forse venuto il tempo di cercare vie attraverso le quali la Parola sia spezzata insieme, sia messa in comune, condivisa? Sempre tenendo ferma la presidenza sacramentale del presbitero, non si potrebbe tentare di praticare una risposta comune condivisa alla Parola di Dio, affinché la liturgia sia realmente dialogale? Se nella sinagoga di Nazaret è stato possibile a Gesù, che non era un sacerdote né un rabbi autorizzato, “prendere la parola” e farsi eco della Parola proclamata, contenuta nelle sante Scritture (cf. Lc 4,21), perché duemila anni dopo non è ancora possibile rinnovare quel diritto che competeva a ogni credente diventato “figlio del comandamento”? Questa è una possibilità oggi permessa solo a un movimento ecclesiale, ma in altre forme, rispettose dei doni ricevuti e della táxis liturgica, perché non aprire a qualche voce non presbiterale l’omelia presieduta legittimamente?

 

2. Liturgia e vita spirituale
Siamo in un contesto, almeno in occidente, nel quale liturgia e vita spirituale sembrano sempre più allontanarsi, misconoscersi a vicenda. Ormai vediamo attestata una separazione tra la fede, il credere in Dio, e la partecipazione alla liturgia, l’appartenenza alla chiesa: cristiani consapevoli di essere tali disertano la liturgia e restano abitualmente lontani da essa; altri consumano il loro bisogno religioso-spirituale presso santuari o in celebrazioni legate a eventi straordinari, senza avere un rapporto con la comunità cristiana locale. In questa situazione liturgia e vita spirituale appaiono divaricate, sicché si impoveriscono a vicenda. La liturgia rischia di diventare prevalentemente “rito” e la vita spirituale di nutrirsi non alla propria fonte, ma a fonti estranee e a volte inquinanti. La liturgia in verità deve restare fonte e quindi, canone, traccia per la preghiera personale e deve essere la matrice della vita interiore del cristiano. Errori e insufficienze nella preghiera personale e nella vita spirituale significano errori nella fede! Se la vita spirituale è relazione con il Signore, non si può dimenticare che “il Signore presiede le lodi di Israele” (cf. Sal 22,4), che è il Signore che apre le labbra (cf. Sal 51,17) e gli orecchi (cf. Sal 40,7) del credente, che l’incontro con lui avviene come incontro di tutta la comunità dei credenti nell’assemblea liturgica in cui egli si fa presente.
Chi come me per ragioni anagrafiche ha conosciuto una vita cristiana alimentata dai “pia populi cristiani exercitia”, da devozioni e manifestazioni della pietà popolare, ha nutrito grandi speranze nell’ora della riforma liturgica: in quel momento infatti si scopriva e si assumeva la convinzione che la vita spirituale personale non può avere altra fonte che non la liturgia, la liturgia eucaristica innanzitutto, la liturgia delle ore, la liturgia dei sacramenti. Come non confessare che la restaurazione della veglia pasquale voluta dalla riforma di Pio XII all’inizio degli anni ’50 del secolo scorso cambiò la nostra spiritualità, ponendo al suo centro il mistero pasquale, il mistero della morte e resurrezione del Signore Gesù? Fu proprio la mia generazione a tenere sul comodino come libro eccellente di preghiera personale il piccolo messale nelle edizioni prima del Caronti, poi del Lefebvre, infine, in gioventù, quello del Feder. L’eucologia delle collette del tempo liturgico e per le varie necessità, la liturgia delle ore domenicale erano la fonte della nostra spiritualità.
Ma cosa è successo dopo, in contraddizione con l’intenzione della riforma liturgica e l’amplissimo materiale che essa poneva a disposizione quale fonte di spiritualità autentica per ogni cristiano? Perché i giovani, anche quelli più consapevoli, non possiedono più il messalino? Perché in Italia le diocesi e i loro uffici liturgici, quando vi è un’assemblea diocesana, o di presbiteri, o di religiose, anziché celebrare la liturgia delle ore preferiscono fabbricare, sovente con dilettantismo, delle liturgie in cui non si è più capaci di esprimere una lex orandi? Come non ricordare che nell’ultimo Convegno ecclesiale nazionale, tenutosi a Verona nell’ottobre del 2006, nell’ora del tramonto non avvenne la celebrazione dei vespri ma una celebrazione disordinata e inconsistente, in cui si privilegiavano immagini che apparivano sullo schermo?
Già all’inizio del XX secolo Pio X affermava che “la fonte prima e indispensabile alla quale i fedeli devono attingere uno spirito veramente cristiano è la liturgia” (cf. Motu proprio Inter sollicitudines [22 novembre 1903], Introduzione) e Giovanni Paolo II lo ha riconfermato con queste parole: “Niente di tutto ciò che facciamo noi nella liturgia può apparire come più importante di quello che invisibilmente, ma realmente fa il Cristo per l’opera del suo Spirito” (Lettera apostolica Vicesimus quintus annus [4 dicembre 1988] 10). Eppure nella spiritualità attuale – basta leggere gli autori “spirituali” più in voga – il riferimento alla liturgia è assente: molti sono i riferimenti alla preghiera, rarissimi quelli alla liturgia… Sono contento che si parli del rapporto tra Bibbia e spiritualità, che si parli della lectio divina, ma vorrei che lo stesso sforzo fatto da alcuni vescovi, da alcune chiese locali e da molti fedeli per la lectio fosse accompagnato da un’attenzione, da un impegno a favore della liturgia, la fonte della spiritualità: tutto questo nella consapevolezza che il sito privilegiato per accogliere la Parola è proprio la liturgia! La seconda parte dell’Esortazione apostolica Verbum Domini, intitolata Verbum in ecclesia (§§ 50-89), è ricca di indicazioni a questo proposito.
L’incipit della Sacrosantum Concilium proclama significativamente come obiettivo del concilio “far crescere sempre di più tra i fedeli la vita cristiana” (§ 1), e al n. 90 dello stesso testo si legge: “La preghiera pubblica della chiesa sia la fonte della pietà e l’alimento della preghiera personale”. Questa affermazione non ha fin qui trovato un’attuazione adeguata e attende nel prossimo futuro un impegno serio da parte di tutte le chiese locali. Nei prossimi anni la liturgia dovrà rispondere alla domanda di un’atmosfera orante, senza per questo cadere in espressioni devote e intimistiche. Sì, questa divaricazione tra liturgia e spiritualità – mi rincresce dirlo – è anche dovuta alla responsabilità di operatori liturgici e pastorali che di fatto non riconoscono alla liturgia la qualità di fonte della teologia, della spiritualità e, di conseguenza, della pastorale. Così la spiritualità è sempre più narcisistica, sempre più preoccupata di fornire soluzioni terapeutiche, sempre più individualista e, come tale, è un elemento che ostacola l’assiduità, la partecipazione alla liturgia della chiesa, che è “partecipazione attiva”, “actuosa participatio” (Sacrosantum Concilium 14), quando riesce a nutrire, cioè a essere accolta come cibo nella vita di fede del credente. Perché nella liturgia cristiana si tratta di accogliere, non di dare; si tratta di diventare soggetti di fede, speranza e carità, non di fare.
Si tratta di resistere alla tentazione, oggi molto seducente, di liturgie intimiste, con canti individualisti ed emozionali, con espressioni teologicamente gnostiche e spiritualmente pietiste, con confusioni tra la fede e l’intensità dei sentimenti religiosi. Soprattutto, appare urgente ricordare l’esigenza liturgica espressa da Benedetto nella sua Regola: “Mens concordet voci” (RB 19,7), cioè la mente, l’intelletto sia in sintonia con la Parola, il Lógos, e non in balia dei sentimenti individuali e solitari che non permettono una partecipazione, un “fare insieme” ciò che si dice (“actio concordet voci”). A questo proposito, vorrei almeno dire una parola sulla tendenza a moltiplicare le adorazioni eucaristiche. Questi sono assolutamente “esercizi necessari”, ma attenzione a non strumentalizzarli, proprio per il rispetto della presenza di Dio, a bisogni religiosi di altro tipo. In particolare le nuove generazioni, che rifuggono la messa, non devono trovare un succedaneo nell’adorazione eucaristica, per loro più facilmente praticabile, perché senza la celebrazione sacramentale non si può essere costituiti membra del corpo di Cristo!
I cristiani oggi vogliono trovare nella liturgia il luogo in cui sperimentare – come accennavo nell’introduzione – ciò che la fede permette di vivere, ciò che può ispirare e plasmare il loro comportamento, ciò che essi possono sperare e dunque testimoniare. È nella liturgia che dovrebbe accadere che Gesù Cristo parla e chiama: “Se tu vuoi…, vieni…, seguimi…, alzati e cammina…, andate…”, non nell’intimità individualistica nutrita da letture devote o nell’ambito di assembramenti in cui si testimonia non la presenza del Signore e il risuonare della sua “Parola viva ed efficace” (cf. Eb 4,12), ma si afferma piuttosto: “C’ero anch’io!”.

 

3. Liturgia e appartenenza alla chiesa
In un memorabile incontro avuto nel 1968 con dom Olivier Rousseau a Chevetogne, questo discepolo di dom Lambert Beauduin mi disse: “Non è possibile appartenere alla chiesa senza celebrare, ma è possibile celebrare senza appartenere alla chiesa”. Queste parole, trascritte come un apoftegma nel mio taccuino da viaggio, mi hanno sempre accompagnato e fatto riflettere sul rapporto tra liturgia e chiesa, un rapporto che credo meriti attenzione e vigilanza da parte nostra per il futuro della fede cristiana.
Oggi è convinzione ritrovata e acquisita che “la liturgia fa la chiesa” (“liturgia in qua fabricatur ecclesia”), perché c’è una relazione intima, sostanziale tra il mistero di Cristo e il mistero della chiesa suo corpo. È attraverso la liturgia, sempre attualizzazione del mistero pasquale, che il Kýrios, il Signore Gesù Cristo, nella potenza dello Spirito santo, “suo compagno inseparabile” – secondo la dizione di Basilio di Cesarea (cf. Lo Spirito santo 16,39) –, costruisce la chiesa, attirando a sé e innestando nel suo corpo quelli che obbediscono alla fede (cf. Rm 1,5; 16,26). Per questo noi possiamo dire che la liturgia è l’epifania più vera e autentica della chiesa: niente manifesta il mistero profondo della chiesa quanto l’assemblea, l’ekklesía radunata da Dio davanti a sé. Soprattutto Sacrosantum Concilium 2, 26, 61 e Institutio generalis missalis romani 74 ricordano che la liturgia presieduta dal vescovo, “coadunatio localis”, si rivela come la principale manifestazione della chiesa (“praecipua manifestatio ecclesiae”). Dunque, proprio per questo rapporto tra liturgia e natura della chiesa, l’eucaristia è un’”ecclesiofania” che narra la koinonía, la comunione della chiesa, la edifica dal di dentro (éso) e la presenta anche a quelli che sono al di fuori (éxo).
È proprio su questa delicatissima relazione tra chiesa e liturgia che si gioca l’appartenenza alla chiesa e si possono instaurare forze di divisione e conflitti che sfigurano la comunione ecclesiale. Soprattutto oggi, dopo l’atto misericordioso con cui nel 2007 Benedetto XVI ha permesso l’uso antiquior del Messale di Pio V a gruppi stabili di fedeli che aderiscono e continuano ad aderire a quella forma” (cf. Motu proprio Summorum pontificum 5 § 1), occorre trovare vie in cui si manifesti che la lex credendi è sostanzialmente la stessa nella liturgia tridentina come nella liturgia riformata dal Vaticano II. Si tratta di trovare modi in cui articolare unità e pluralismo di usi liturgici, così da spegnere ogni tentazione di conflittualità.
Ecco allora sorgere alcune domande. Innanzitutto, è possibile confessare la comunione cattolica, appartenere all’unica chiesa, se si giudica l’eucaristia celebrata nella forma rinnovata come infedele alla tradizione, in rottura con la liturgia precedente? In questo caso il pluralismo permesso diventa separatore! L’appartenenza alla chiesa non può nutrirsi solo di sensibilità, ma richiede la pratica della comunione e della fraternità che impedisce la non accoglienza della diversità, dell’essere insieme pietre vive dell’unica chiesa (cf. 1Pt 2,5). La pluralità dei riti è nella tradizione e nella natura universale della chiesa, ma è pluralità coerente con la diversità di comunità, tradizioni, lingue, culture che on si condannano né si escludono a vicenda.
Confessando un rispetto pieno verso chi aderisce a un rito o a una forma rituale, si può fare un’altra domanda: è sufficiente una sensibilità per decidere la liturgia che si pratica, e quindi come appartenere alla chiesa? Non è questo un cedimento alla dominante post-moderna secondo cui si sceglie e, di conseguenza, si ha diritto a vedere soddisfatta la propria sensibilità, qualsiasi essa sia? L’appartenenza al corpo della chiesa la si sceglie oppure la si accoglie, se essa deve significare una partecipazione effettiva alla vita della comunità in cui si è stati battezzati e generati a Cristo? Ecco dunque un tema sul quale soprattutto il vescovo, “moderatore della liturgia nella sua diocesi” (cf. Sacrosantum Concilium 22), deve operare un discernimento con molta carità, con molta misericordia ma anche con vigilanza e intelligenza liturgica, affinché non prevalga il pensiero che la liturgia è solo una forma di preghiera che si adatta a piacimento, “secondo la propria sensibilità”: questo sarebbe relativismo liturgico. La liturgia deve garantire l’unità del corpo ecclesiale, oggi minacciata non dal pluralismo degli usi rituali ma dal non riconoscimento pieno e leale di questa pluralità legittima e dal fare del proprio uso rituale una bandiera, un’insegna, un uso rituale da propagandare a scapito di altri e diffondere. Ho l’impressione che proprio chi dice di esigere più rispetto per la santissima messa, sovente volendola celebrare per motivi nostalgici, se non addirittura di ostentazione e di folklore, ne ferisca la santità…
L’eucaristia può essere celebrata solo per “edificare la chiesa” e per confessare l’appartenenza reale a essa, corpo di Cristo nel mondo.

 

Conclusione
Vorrei sintetizzare questo mio intervento attraverso un’urgenza che può aiutare a tenere insieme in modo fecondo e “canonico” i rapporti tra la liturgia e, rispettivamente, la Parola, la vita spirituale, l’appartenenza alla chiesa.
La liturgia è luogo dell’esperienza della Parola e dello Spirito, ma luogo che resta umano, umanissimo, in cui l’uomo intero, nella sua unità di corpo, psiche e spirito, è soggetto dell’esperienza del Dio che viene all’uomo. Ecco, solo con un’attenzione e un’intelligenza che sappia cogliere l’umanità della liturgia è possibile accogliere in essa il “mistero della fede”. Si legge nel prologo del quarto vangelo un’affermazione a me da sempre molto cara, a cui già in precedenza ho fatto riferimento: “Dio nessuno lo ha mai visto, ma il Figlio”, l’uomo Gesù, “exeghésato, ce ne ha fatto il racconto” (Gv 1,18). Parallelamente, potremmo dire che solo nell’umanità autentica della liturgia si può trovare il racconto di Dio, perché la liturgia è l’exeghésato del Kýrios qui e ora, per noi cristiani.

 

Enzo Bianchi
Priore di Bose