Roma, Campidoglio
4 settembre 2009
Convegno Nazionale Presidenti e Assistenti Diocesani
Azione Cattolica Italiana
di ENZO BIANCHI
I cristiani attualmente sembrano afoni, poco convinti, poco ispirati dal Vangelo, e così pare venir meno il loro contributo alla polis
Convegno Nazionale Presidenti e Assistenti Diocesani
Azione Cattolica Italiana
«Legami da rinnovare:
Azione Cattolica, parrocchia, territorio»
Roma, Campidoglio, 4 settembre 2009
Enzo Bianchi, Priore di Bose
Con grande gioia sono qui in mezzo a voi, cari amici, che mi sento di chiamare così perché non dimentico mai che nell’Azione cattolica sono cresciuto come cristiano, dalle Fiamme bianche alla FUCI, finché ho iniziato la sequela monastica del Kyrie nostro, Gesù Cristo. Grazie, quindi per questo invito.
Introduzione
Viviamo in un’epoca di profondi mutamenti, in un «mondo in fuga», secondo la definizione di Anthony Giddens, un mondo che sembra sfuggire al nostro controllo e impedirci di capire dove stiamo andando. In un’ora così contrassegnata sono proprio i legami, i rapporti che si vivono ad essere scossi, modificati e contestati. Di conseguenza, sono questi stessi legami che richiedono attenzione e discernimento, al fine di operare delle scelte: occorre cioè decidere se lasciarli cadere, oppure se modificarli, rinnovarli e accrescerli.
Per quanto riguarda più da vicino il nostro tema, ossia quello dei rapporti tra cristiani e territorio vissuti soprattutto attraverso la parrocchia, nella quale l’Azione Cattolica può essere una presenza efficace, dobbiamo confessare che su di esso si riflette da decenni, potremmo dire addirittura dall’inizio del secolo scorso. Infatti è proprio con la fine dell’assetto sociale contadino e con l’imporsi della società industriale che si sono dovuti cercare nuove forme per la collocazione dei cristiani nella polis degli uomini e per la loro missione, letta volta per volta come testimonianza, come nuova evangelizzazione, come presenza.
Più recentemente si è parlato di «conversione della pastorale», cioè di un cambiamento in senso missionario, in vista di un annuncio più efficace in mezzo agli uomini sempre più «indifferenti» rispetto alla fede e alla vita cristiana. Si è soliti dire che va ripensata la parrocchia, che va ricompreso il concetto di territorio tenendo conto dello spazio umano, che le presenze associative laicali devono trovare una nuova collocazione nella chiesa locale, in un’ottica di ecclesiologia della comunione. Sì, confessiamo che i cantieri sono aperti e che occorrono molta umiltà, molta faticosa ricerca e soprattutto la capacità di ascolto dell’umanità: si tratta di ascoltare uomini e donne che vivono qui e oggi, hic et nunc, e che, anche se non sempre ne sono consapevoli, sono in ricerca di ragioni di speranza, del senso del senso, e dunque possono trovare in Gesù di Nazaret, il Signore della storia, una ragione di umanizzazione che è ricerca di salvezza.
Ma cerchiamo, nel poco tempo che abbiamo a disposizione, di leggere nella fede questi legami che vogliamo rinnovare, vivendo quella dinamica che è inscritta costitutivamente nella nostra fede: ricominciare, rinnovare, fare nuovo, aggiornare, riattualizzare.
Parlando di parrocchia, occorre innanzitutto ricordare il significato letterale del termine greco paroikía (cf. 1Pt 1,17) da cui essa deriva: pará-oikía, «presso la casa», dunque lo stare, il risiedere accanto alle dimore altrui. Ricorrendo alla medesima terminologia, la Prima lettera di Pietro definisce i cristiani pároikoi (1Pt 2,11), «pellegrini» domiciliati accanto agli altri uomini non cristiani. E alla fine del I secolo Clemente di Roma può rivolgersi alla chiesa di Corinto in questi termini: «La chiesa di Dio che soggiorna (paroikoûsa) in Roma alla chiesa di Dio che soggiorna (paroikoûsa) in Corinto» (Prima epistola ai Corinti, proemio).
Fin dagli albori del cristianesimo, dunque, parrocchia è un termine che designa la condizione della chiesa locale in un determinato territorio. Una condizione testimoniata in un modo che ancora oggi ci intriga da uno scritto straordinario delle origini cristiane, l’A Diogneto:
I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per abiti. Non abitano neppure città proprie, né usano una lingua particolare … Vivono in città greche o barbare, come a ciascuno è capitato in sorte, … ma testimoniano una forma di vita ammirevole e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria ma da forestieri (pároikoi); a tutto partecipano come cittadini e a tutto sottostanno come stranieri (xénoi); ogni terra straniera è patria per loro e ogni patria è terra straniera.
(A Diogneto V,1-2.4-5)
Ecco come va letto il legame tra comunità cristiana e territorio: il territorio non è lo scenario della vita cristiana ma è il luogo in cui i cristiani vivono la solidarietà con gli altri uomini e con la terra stessa. Il territorio è lo spazio in cui i cristiani
- innanzitutto ascoltano il mondo
(gli uomini e le donne con le loro sofferenze, le speranze e le fatiche;
il creato, l’ambiente e la terra...);
- in cui vivono la storia senza evasioni;
- in cui sono chiamati a edificare la polis insieme agli altri uomini;
- in cui esercitano la loro responsabilità;
- in cui sono innestati nella comune vicenda culturale di un popolo;
- in cui devono discernere i «segni dei tempi»,
che spesso si manifestano anche come «segni dei luoghi».
Dobbiamo confessare che nei decenni passati, quando la parrocchia effettivamente non poteva più essere ristretta al solo territorio, abbiamo dato troppa importanza e abbiamo enfatizzato ipotesi di parrocchia avulsa dal contesto spaziale e identificata solo con quanti ne facevano parte. Oggi però siamo più consapevoli che lo spazio è, insieme al tempo, una coordinata essenziale, che predispone quanto è necessario all’edificazione di una comunità cristiana, della chiesa locale. C’è bisogno di uno spazio per credere, di un luogo in cui diventare cristiani, in cui radicarsi e, con un riferimento a un preciso habitat umano, poter vivere la comunità, poter accrescere la comunione. Certo, la parrocchia è innanzitutto comunità di uomini e donne, ma – lo ripeto – uomini e donne radicati in un territorio, coinvolti nella vicenda storica con tutti coloro che in esso risiedono. Abbiamo vissuto una stagione in cui con grande superficialità si sono avanzate altre ipotesi in riferimento all’essere chiesa nel mondo: dalle ipotesi corporative, a quelle movimentiste, a quelle diasporiche che dissolvono la chiesa… In questo modo si sono inferte gravi ferite all’ecclesiologia di comunione, che è sempre comunione di chiese locali e comunione di cristiani singoli o associati in diverse forme e diaconie, sempre però all’interno della chiesa locale.
Ma l’Azione Cattolica, nel suo progetto e nella sua secolare storia, ha sempre voluto essere e di fatto è sempre stata una forma di comunione tra fedeli che si collocano nella chiesa locale per essere servizio e testimonianza, per essere nel mondo e tra gli uomini una vera missione assunta e svolta con responsabilità di credenti cristiani che vogliono essere «per Dio un regno di sacerdoti e una gente santa» (cf. 1Pt 2,9; Es 19,6). Il fatto che non ci siano mai state da parte dell’Azione Cattolica tentazioni di svolgere una’azione parallela rispetto alla chiesa e il fatto che, a volte anche con fatica e dolore, essa abbia sempre cercato di vivere la comunione con la chiesa e nella chiesa, questo deve essere il vanto dell’Azione Cattolica.
Oggi, in quest’ora culturale in cui – secondo le parole del sociologo francese Michel Maffesoli – «come la modernità metteva l’accento sul tempo, la post-modernità mette l’accento sullo spazio-territorio», occorre reinventare un legame tra Azione Cattolica e parrocchia e, di conseguenza, tra Azione Cattolica e territorio. Tutto questo tenendo conto che i concetti di spazio e tempo sono in continuo mutamento, a causa dell’universo di Internet, a causa della cultura soggettivista, a causa della pluralità e della complessità di presenze umane, religiose, etiche ed etniche di cui è composta la polis.
Alla luce di queste considerazioni generali, cosa dire all’Azione Cattolica per indicarle vie di rinnovamento dei legami necessari alla testimonianza, alla trasmissione della fede, alla costruzione della comunità cristiana? Poiché sono certo che i sociologi che interverranno dopo di me affronteranno questi temi in base a competenze che io non ho, io vorrei semplicemente limitarmi a evidenziare alcune istanze che mi sembrano urgenti.
1. «Vogliamo vedere Gesù!»
Un cristiano può evangelizzare gli altri solo se egli stesso è in prima persona evangelizzato, altrimenti è solo un militante, non un discepolo di Gesù. Essere discepolo di Gesù significa essere coinvolto nella vita Jesu, significa dedicarsi a un cammino di conoscenza di lui che nasce dall’ascolto delle Scritture, in particolare del Vangelo. E oggi la conoscenza richiesta è innanzitutto conoscenza della vita umana di Gesù, di quella vita in cui egli ha narrato Dio (exeghésato), il Dio che nessuno ha mai visto né può vedere (cf. Gv 1,18). È la conoscenza dell’umanità di Gesù che ci apre alla conoscenza del suo essere Dio e Signore, perché è nella carne umanissima di Gesù che Dio è stato narrato. Sì, il cristiano ha come primo compito quello di conformare la propria vita umana alla vita umana di Gesù.
E oggi – mi sia permesso dirlo – il cammino degli uomini verso la fede non è più quello di qualche decennio fa: la chiesa nutriva il fedele e lo faceva crescere fino a quando questi, con maturità, faceva propria la fede ereditata dalle generazioni precedenti e accedeva all’adesione a Dio, quindi a Gesù Cristo. Ebbene, oggi per moltissimi uomini non è più così: Dio è diventata una parola ambigua e a volte scandalosa, sovente «la chiesa» – sono parole scritte quarant’anni fa da Joseph Ratzinger – «è per molti l’ostacolo principale alla fede» (Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 2005, p. 330; il testo originale tedesco è del 1968, prima traduzione italiana del 1969), mentre continua a salire un grido dall’umanità: «Vogliamo vedere Gesù!» (Gv 12,21). È un grido che chiede a uomini e donne di mostrare Gesù, facendo vedere la loro vita ispirata dal Vangelo e ad esso conformata, testimoniando la prassi di servizio, di amore, di riconciliazione e di libertà vissuta da Gesù.
Oggi occorre dunque presentare agli uomini un cammino umano: far vedere Gesù, collocare Gesù in Dio, colui che lo ha inviato, e quindi introdurli poco a poco nella comunità cristiana fino a far loro amare la chiesa. Questa, a mio avviso, è la prima testimonianza da dare, e l’Azione Cattolica è certamente capace di formare a ciò dei cristiani maturi, evangelizzatori perché evangelizzati.
Non ci si fermi a confini stabiliti in precedenza tra comunità cristiana e battezzati non praticanti o addirittura in contraddizione con la fede. Il cristiano deve avere in qualche modo una fede anche per quelli che l’hanno più debole e deve sentire questa solidarietà profonda in cui può pulsare la grazia battesimale anche quando non è visibilmente operante.
2. Il dialogo con tutti gli uomini
Un cristiano che vive in modo eucaristico il rapporto con la storia deve, soprattutto oggi, essere disponibile allo scambio, al confronto, al dialogo nella comunità cristiana e con tutti gli uomini. Non posso non ricordare a questo proposito il magistero di Paolo VI che, nell’ora del Concilio e dell’immediato post-Concilio, in vista di un rinnovamento della vita e della presenza dei cristiani nel mondo proponeva il dialogo, il confronto, l’ascolto come atteggiamenti che dovevano plasmare lo stile quotidiano cristiano. Non diffidenza, arroccamento, intransigenza, non lo stare su posizioni difensive, non il cedimento alla tentazione di ripagare con la stessa moneta l’ostilità e il disprezzo da parte della società non cristiana… Ma vale la pena citare brevemente alcune parole di Paolo VI:
Noi guardiamo al mondo con immensa simpatia. Se il mondo si sente estraneo al cristianesimo, il cristianesimo non si sente estraneo al mondo.
(Betlemme, Discorso del 6 gennaio 1964)
La chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La chiesa si fa parola; la chiesa si fa messaggio; la chiesa si fa colloquio.
(Enciclica Ecclesiam suam 67, 6 agosto 1964)
Dialogare nella verità non è facile, e l’arte del dialogo è per molti aspetti solo abbozzata. Eppure noi dobbiamo compiere questa fatica che ci permette di ascoltare l’altro per poterlo conoscere, amare, assumere come un compagno di ricerca e di viaggio, con il quale condividere la speranza e la fiducia necessarie per trovare il senso del senso. Nessuna paura del dialogo: chi conosce la propria fede, non mancherà dell’aiuto dello Spirito santo, promesso per ogni circostanza in cui si accende una contraddizione, una crisi, un processo che contrappone fede e mondo (cf. Gv 15,18-16,15).
Resistere al male e alla mondanizzazione della vita cristiana è urgenza assoluta per il discepolo di Cristo, ma questa fatica, questa lotta spirituale a caro prezzo non deve mai generare un’ostilità o un disprezzo verso gli uomini, anche quando questi fossero ostili nei nostri confronti. È l’insegnamento di Gesù che ce lo impone.
3. I cristiani nella polis, senza esenzioni né evasioni
Nell’attuale orizzonte c’è inoltre più che mai bisogno di cristiani che sappiano impegnarsi nella costruzione della polis insieme ad altri uomini non cristiani; c’è bisogno di cristiani dotati della capacità di restare ispirati dal Vangelo nella ricerca di umanizzazione della società. So di toccare un punto molto delicato, sul quale forse oggi sappiamo solo tacere: ma non vorrei che su di esso si spegnessero la ricerca e la speranza!
I cristiani attualmente sembrano afoni, poco convinti, poco ispirati dal Vangelo, e così pare venir meno il loro contributo alla polis. L’Azione Cattolica, senza mettere questo come scopo e obbiettivo primario, non dimentichi però, all’interno dei cammini di formazione che propone, che il fedele cristiano deve partecipare alla vita della polis in tutto, senza esenzioni né evasioni. Nessuna fuga mundi, se mai eventualmente una fuga dalla mondanità: ma questo è nient’altro che il vivere responsabilmente la «differenza cristiana». «Non sic in vobis», «Non così tra di voi» (Lc 22,26): ecco le parole di Gesù che, mettendo in guardia contro l’idolatria, contro la perversione del possesso e dell’autorità, normano l’azione e lo stile del cristiano in mezzo agli altri uomini.
In questo senso all’Azione Cattolica non spettano molti compiti, ma semplicemente quello di formare cristiani maturi, testimoni di Cristo nel mondo, capaci di collaborare alla costruzione della città degli uomini.
4. La coscienza, istanza mediatrice tra fede e azione socio-politica
Infine, guardando al campanile e alla piazza, alla chiesa e all’agorà, occorre ribadire che i cristiani, proprio perché appartenenti alla città e alla società degli uomini, devono essere soggetti responsabili, e la loro coscienza deve essere l’istanza mediatrice tra fede e azione socio-politica. Noi dovremmo ancora oggi comprendere e progettare la modalità con cui i cristiani, da cittadini veri, leali e solidali con gli altri con-cittadini possono dare il loro contributo alla polis. Non ci deve essere alcuna diffidenza o contraddizione rispetto all’appartenenza alla società e alla cittadinanza: essi sono realmente cristiani, discepoli del Signore Gesù Cristo, se si lasciano ispirare dal Vangelo e se, attraverso l’istanza mediatrice della loro coscienza, danno il loro contributo sotto la forma dell’azione politica la quale resta, come già diceva Pio XI, «il campo della più vasta carità» (Discorso agli universitari cattolici, in L’Osservatore Romano, 23 dicembre 1927, p. 3).
Come ha più volte ricordato Benedetto XVI, «la chiesa non è né intende essere un agente politico», ma spetta ai cristiani un doveroso impegno in ordine all’umanizzazione della convivenza civile e alla realizzazione di una società sempre più segnata da giustizia, rispetto della dignità della persona, pace. Dunque per la chiesa vi è una funzione mediata nei confronti della società, soprattutto attraverso la purificazione della ragione e il risveglio di forze morali; per i fedeli laici vi è una funzione immediata nel partecipare in prima persona alla vita pubblica senza «abdicare alla molteplice e svariata azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere il bene comune» (Benedetto XVI, Enciclica Deus caritas est 29, 25 dicembre 2005).
Ecco, le mie sono semplici e povere parole, dette con simpatia a dei fratelli e delle sorelle nella fede. Che il Signore ispiri e porti a compimento ciò che noi tentiamo con l’aiuto dello Spirito santo di incominciare nella storia e tra gli uomini, con molta umiltà e consapevoli della nostra debolezza. Grazie!
Enzo Bianchi Priore di Bose