Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Vegliate perchè non sapete nè il giorno nè l'ora

20/11/2014 23:00

ENZO BIANCHI

Lectio Divina,

Vegliate perchè non sapete nè il giorno nè l'ora

Vorrei innanzitutto esprimere la mia gioia di essere ancora una volta in mezzo a voi per leggere, meditare, pregare e contemplare insieme la Parola di Dio...

Roma, S. Maria in Traspontina, 21 novembre 2014

Introduzione

 

Vorrei innanzitutto esprimere la mia gioia di essere ancora una volta in mezzo a voi per leggere, meditare, pregare e contemplare insieme la Parola di Dio contenuta nelle Scritture, di cui i vangeli sono il cuore.

Questa sera mi è stato chiesto di meditare sulla parabola evangelica delle dieci vergini (Mt 25,1-13). Mi pare una scelta particolarmente felice, perché ci consente di fare l’unità tra i brani evangelici ascoltati nelle ultime domeniche del tempo ordinario (annata A) e l’Avvento ormai alle porte. Prima di venire al brano che ci interessa, cerchiamo dunque di collocarlo nel suo contesto, in modo da coglierlo in tutta la sua ricchezza di senso, per la nostra vita, qui e ora.

 

1. “Vegliate!”

 

Nelle scorse due domeniche e nella prossima la chiesa ci propone la lettura liturgica integrale di Mt 25, diviso in tre brani. Questo testo costituisce la seconda parte, propria di Matteo, del grande discorso escatologico, cioè sulla fine dei tempi, fatto da Gesù nei capitoli 24-25. Matteo leggeva in Marco, la sua fonte, queste parole di Gesù (che ascolteremo la prima domenica di Avvento, annata B):

 

Fate attenzione, vegliate (agrypneîte, vigilate), perché non sapete quando è il momento … Vegliate (gregoreîte, vigilate) dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino … Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate (gregoreîte, vigilate)! (Mc 13,33.35.37).

 

A partire da tale monito di Gesù, Matteo ha ricordato e collocato a questo punto tre parabole del Signore su cosa significa vigilare (cf. Mt 24,45-25,30) seguite dal grande affresco sul giudizio finale (cf. Mt 25,31-46). Nella sua redazione Matteo insiste soprattutto

 

- sul tema dell’ignoranza circa il giorno e l’ora della parusia, della venuta gloriosa di Cristo (cf. Mt 24,36.39.42.44.50; 25,13);

 

- sul ritardo della parusia stessa (cf. Mt 24,48; 25,5.19);

 

- e ciò deve imporre a ogni credente una vigilanza fedele e saggia (cf. le tre parabole di 24,45-25,30).

 

Detto altrimenti, visto il ritardo di questa venuta nella gloria – almeno ai nostri occhi, se è vero che “davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno” (2Pt 3,8) –, come comportarsi, come vivere il nostro hic et nunc? In una parola: come vigilare?

 

Avvicinandoci al nostro testo, occorre collocarlo almeno all’interno di ciò che Gesù, “seduto sul monte degli Ulivi, di fronte al tempio” (Mc 13,3; cf. Mt 24,3), dice ai discepoli verso la fine di Mt 24 (dove potete sentire “l’aggancio” con il testo di Marco di cui sopra):

 

Vegliate (gregoreîte, vigilate), perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe (egregóresen, vigilaret) e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo (Mt 24,42-44).

 

Un’affermazione analoga si ripete anche alla fine del nostro brano: “Vegliate (gregoreîte, vigilate) dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25,13). Più in generale, tale monito avvolge le tre parabole che seguono. Queste, come è tipico in Matteo, dipingono uno scenario in bianco e nero, con due vie opposte tra le quali scegliere:

 

- Mt 24,45-51: il servo che può essere fedele (pistós, fidelis) e prudente/saggio (phrónimos, prudens) oppure malvagio;

 

- Mt 25,1-13: cinque vergini stolte e cinque prudenti/sagge. Ovvero: cos’è la prudenza/saggezza?

 

- Mt 25,14-30: due servi fedeli che fanno fruttare i talenti ricevuti, uno malvagio che lo seppellisce. Ovvero: cos’è la fedeltà?

 

La nostra parabola – come dicono alcuni commentatori – ritrae le usanze matrimoniali palestinesi: il giorno precedente le nozze, al tramonto, il fidanzato si recava con gli amici a casa della fidanzata, la quale lo attendeva insieme ad alcune amiche. Questo in parte è vero. Eppure, se facciamo attenzione, il nostro racconto presenta molti tratti strani, inverosimili: la sposa non c’è; lo sposo arriva a mezzanotte; si chiede di comprare olio in piena notte; la conclusione è del tutto fuori luogo, quasi tragica…

 

In breve, il punto è un altro. Questa parabola è costruita ad arte da Matteo, certamente a partire dal ricordo di parole di Gesù, per descrivere la prolungata attesa della venuta gloriosa del Signore Gesù: è lui, il Messia, “lo Sposo che tarda” (cf. Mt 9,15: “Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo Sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo Sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno”), e il vero problema è come comportarsi in questa attesa! Di nuovo: come vigilare?

 

2. Primo quadro: presentazione degli eventi (vv. 1-4)

 

1Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo Sposo. 2Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; 3le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; 4le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi.

 

“Il regno dei cieli sarà simile…”: con questo frase tipica di Gesù, che apre così molte delle sue parabole, siamo subito condotti nel vivo del racconto. Ci sono dieci vergini, che si muniscono delle loro lampade per “uscire incontro allo sposo”. Notate: quest’ultimo particolare è espresso in greco con una formula tecnica per indicare l’accoglienza del re nella sua parusia, nella visita ufficiale a una città. Ecco la vera posta in gioco: l’accoglienza di quel re del tutto singolare che è Gesù Cristo, lui che viene ad aprirci il regno dei cieli.

 

L’evangelista precisa subito l’essenziale: cinque di queste vergini sono stolte (moraí, fatuae), cinque prudenti/sagge (phrónimoi, prudentes). Stoltezza o prudenza/saggezza, non c’è alternativa. E in cosa consiste la differenza? Nel prepararsi o meno all’incontro con il Signore, prendendo con sé l’olio, elemento su cui torneremo. Per ora limitiamoci a illuminare questa netta contrapposizione attraverso altre parole di Gesù nel vangelo secondo Matteo, al termine del “discorso della montagna” (cf. Mt 5,1-7,29):

 

Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio (phrónimos, prudens), che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto (morós, stultus), che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande (Mt 7,24-27).

 

È saggio chi ascolta la Parola e la mette in pratica; è stolto chi ascolta e non fa. L’ascolto è comune allo stolto e al saggio: ciò che li differenzia è la pratica. Questo è l’essenziale, su cui non c’è da aggiungere nessuna nostra glossa.

 

Mi permetto però di farvi notare come questa antitesi è presentata dalla versione latina. Saggio è colui che è prudens, cioè che sa pro-videre, vedere prima, prepararsi, equipaggiarsi: la vita, infatti, è lunga e non basta l’entusiasmo di una stagione per vivere la sequela, per attendere con perseveranza la venuta di Gesù Cristo! Lo stolto, invece, è definito dalla Vulgata in due modi. In Mt 7,26 con stultus, cioè grossolano, potremmo anche dire disattento, incapace di essere preciso in ciò che fa; nella nostra parabola (cf. Mt 25,2) con fatuae, da fari, “parlare”: stolto, folle, è anche chi parla, parla, parla… e non mette in pratica ciò che dice! Le due definizioni si completano alla perfezione: la radice della disattenzione sta nell’incapacità di fare unità in sé tra parole e azioni.

 

3. Secondo quadro: gli eventi si complicano (vv. 5-9)

 

5Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. 6A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. 7Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. 8Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. 9Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.

 

“Poiché lo Sposo tardava…”: ecco il particolare decisivo della parabola, soprattutto agli orecchi dei lettori di Matteo. Il problema è il ritardo della parusia, della venuta finale di Gesù, un vero e proprio trauma per le prime generazioni cristiane. E noi attendiamo ancora il Veniente oppure – come affermava Ignazio Silone – abbiamo per la sua venuta lo stesso entusiasmo di quelli che aspettano l’autobus alla fermata? “… si assopirono tutte e si addormentarono”. Le dieci ragazze sprofondano tutte nel sonno, nessuna esclusa. Si faccia attenzione al paradosso: si sta parlando di vigilanza, di veglia, e tutte dormono! Dunque, che tipo di vigilanza è quella a cui Gesù vuole esortarci? Dove sta la differenza tra le stolte e le sagge, se tutte indistintamente si assopiscono e dormono?

 

Prima di tentare una risposta, lasciamoci colpire dalla voce che squarcia la notte: “Ecco lo Sposo! Andategli incontro!”. Questo grido giunge improvviso a mezzanotte, l’ora più inattesa, l’ora in cui il Signore viene e ci sorprende come un ladro nella notte, afferma a più riprese il Nuovo Testamento (cf. Mt 24,43; 1Ts 5,2-4; 2Pt 3,10; Ap 3,3; 16,15). All’udire questa voce potente, tutte le vergini, come si erano addormentate, così si destano, “risorgono” (verbo egheíro). Ma ecco che finalmente si manifesta la differenza. Le cinque stolte non hanno con sé l’olio, dunque sono costrette a chiederne un po’ alle altre cinque. Si sentono però rispondere: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto a comprarvene”.

 

Risposta dettata dall’egoismo? Dalla mancanza di carità? No, come scrive un commentatore moderno, “è un modo”, pur se brusco, “per dire che nel giudizio finale nessuno è più in grado di fare qualcosa per un altro: ognuno deve rispondere per sé” (Alberto Mello). In altri termini, non si può avere in extremis l’olio necessario. L’incontro con il Signore va preparato prima (pro-videre…), non si può rimediare affannosamente all’ultimo istante. Quest’olio o lo si ha in sé oppure nessuno può pretenderlo dagli altri: è l’olio del desiderio dell’incontro con il Signore. Certo, i padri della chiesa testimoniano molti altri modi di intendere quest’olio: la carità, la compassione, le azioni giuste che danno carne alla fede, ecc. Ma credo che non si debba insistere troppo su un singolo elemento, finendo per perdere di vista l’insieme, cioè l’essenziale: è nella capacità di tenere vivo oggi il desiderio dell’incontro con il Signore che si gioca il giudizio finale, ossia l’essere o meno riconosciuti dal Signore quando verrà alla fine dei tempi. E questo desiderio lo manifestiamo nella nostra vita concreta, quotidiana – come Gesù dice nell’impressionante affresco di Mt 25,31-46 –; lo manifestiamo in questo tempo di attesa, nella consapevolezza che – lo ripeto – la vita è lunga e non basta essere uomini e donne di un momento (próskairoi, temporales: Mc 4,17; cf. Mt 13,21), per darle senso!

 

4. Terzo quadro: il giudizio finale (vv. 10-12)

 

10Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. 11Alla fine arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. 12Ma egli rispose: “Amen, io vi dico: non vi conosco”.

 

Giunge finalmente lo Sposo, ed entrano con lui nella sala di nozze solo le cinque vergini sagge, definite con un altro aggettivo: il “come”, lo stile della loro saggezza consiste nell’essere pronte (étoimoi, paratae), preparate, qui e ora, senza bisogno di alcuna dilazione. Allora “la porta fu chiusa”, un particolare impressionante (sembra quasi di udire il rimbombo successivo a tale atto!), che dice in pochissime parole una verità nettissima, anche se scomoda: dentro o fuori, tertium non datur!

 

“Alla fine” – hýsteron, espressione molto cara a Matteo (cf. Mt 4,2; 21,29.32.37; 22,27; 26,60) – giungono le altre cinque vergini, di ritorno dall’acquisto dell’olio, e cominciano a invocare: “Signore, Signore, aprici!”. Egli però risponde risolutamente: “Amen, io vi dico: non vi conosco”. Si tratta di una formula tecnica con cui, all’interno di una scuola rabbinica, il maestro rifiuta ogni comunanza con il suo discepolo, gli dice di non voler più avere nulla a che fare con lui. Non è forse una risposta troppo dura? Per le nozze sì, nell’ambito del giudizio no: essa “ci ricorda che l’incontro con il Signore è al tempo stesso festa e giudizio” (Bruno Maggioni). In altre parole, nell’ultimo giorno, al momento di dare inizio al banchetto del Regno, il Signore Gesù Cristo non potrà non mettere in luce la verità della nostra vita, mediante quel giudizio che noi confessiamo nel “Credo” (“di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”), giudizio che è assolutamente necessario affinché la storia abbia un senso.

 

Tale verità è mirabilmente espressa da Gesù in un altro brano del “discorso della montagna”, che precede immediatamente quello citato sopra:

 

Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: “Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?”. Ma allora io dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’ingiustizia!” (Mt 7,21-23).

 

Qui il discernimento di Gesù è assai sottile e smaschera una forma di ipocrisia tipicamente “religiosa”: si può presumere di agire in nome di Cristo, di compiere prodigi nel suo nome e invece ingannarsi miseramente; ossia, non fare la volontà del Padre, che è anche la sua volontà. Non è sufficiente neppure compiere gesti carismatici o eclatanti, perché queste opere possono trasformarsi in idoli seducenti in quanto creati dalle nostre mani, in azioni che danno gloria a chi le fa e mirano a realizzare la sua volontà. No, ciò che il Padre vuole è la misericordia, come Gesù ha affermato a più riprese citando le parole del profeta Osea: “Misericordia io voglio, non sacrificio” (Os 6,6; Mt 9,13; 12,7). È un annuncio della misericordia di Dio che deve trasparire dalla nostra prassi in mezzo agli altri uomini e donne, ed è solo su questo che saremo giudicati nell’ultimo giorno. Allora sarà rivelato senza ombra chi ha veramente aderito al Signore e chi, pur fingendo di agire in suo nome, è stato un operatore di ingiustizia…

 

Insomma, non c’è solo la discrepanza tra dire e fare; c’è anche quella tra un fare egoistico, autoreferenziale, e un fare ispirato dalla volontà di Dio, da quella misericordia che è la “giustizia superiore” (cf. Mt 5,20) rivelata da Gesù. In questo “fare differente” consiste l’essere pronti per andare incontro allo Sposo veniente.

 

Conclusione: la vigilanza del cristiano

 

13 Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.

 

Così Gesù conclude e commenta la parabola, con parole che costituiscono il monito decisivo per noi, questa sera. In obbedienza al Vangelo, dunque, come abbiamo aperto così anche chiudiamo parlando della vigilanza.

 

La vigilanza è la matrice di ogni virtù umana e cristiana, è il sale di tutto l’agire, è la luce del pensare, ascoltare e parlare di ogni umano. Non si può non ricordare, al riguardo, l’acuta comprensione di un padre del deserto, abba Poemen: “Non abbiamo bisogno di nient’altro che di uno spirito vigilante” (Apoftegmi dei padri del deserto, Collezione alfabetica, Poemen 135). E il grande Basilio, a conclusione delle sue ampie Regole morali, scrive parole molto care a noi monaci, ma che dovrebbero essere meditate e vissute da ogni cristiano:

 

“Che cosa è specifico del cristiano?”. “Vigilare ogni giorno e ogni ora ed essere pronti nel compiere pienamente la volontà di Dio, sapendo che nell’ora che non pensiamo il Signore viene (cf. Mt 24,44; Lc 12,40)” (Regole morali 80,22).

 

L’Apostolo Paolo, in quello che è il più antico scritto del Nuovo Testamento, così ammonisce i cristiani di Tessalonica:

Voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e vigilanti (gregorômen kaì néphomen) (1Ts 5,4-6).

 

Ecco il ritratto di noi cristiani, ecco la nostra vocazione. Siamo chiamati a essere figli e figlie del giorno, a vivere nella luce, a essere consapevoli di ciò che viviamo e di ciò che ci accade intorno. C’è un sapere, una conoscenza, una vera intelligenza – non quella degli eruditi, degli intellettuali! – che nasce soltanto dalla vigilanza, dall’attenzione. Si tratta di concentrarsi, di vivere una tensione verso, di fissare l’esercizio delle nostre facoltà intellettive e sensitive su qualcosa di preciso. Vigilare, vegliare, è un movimento dell’intero essere umano, corpo e spirito, e per questo non è necessario avere tanti doni. Si tratta di acconsentire a una unificazione personale in cui si è capaci di attendere, di fare attenzione; si tratta di raccogliere tutte le nostre forze per dirigerci interamente verso qualcosa. E in questo è fondamentale vivere in una dimensione di preghiera. Non a caso nell’unico altro passo in cui Gesù parla della vigilanza la associa strettamente alla preghiera e alla lotta spirituale. È al Getsemani, prima della sua passione, quando Gesù dice a Pietro, Giacomo e Giovanni, dopo il loro fallimento nel restare svegli per sostenerlo nella lotta: “Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Mt 26,41).

 

“Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”. Vegliare, vigilare, è andare incontro al Signore con le lampade del desiderio accese; è essere saggi, cioè pronti a vivere il tempo lungo dell’attesa con l’aiuto dell’olio dell’intelligenza. E ciò tenendo presente – come rivela Gesù con grande realismo – la possibilità di addormentarci, ovvero di dimenticare, di rimuovere l’orizzonte della venuta del Signore. Come fare fronte a questa che è più di una possibilità, è una realtà? Lottando ogni giorno per non lasciare appesantire le nostre vite dalla routine, dalla ripetitività del quotidiano, che è pur sempre l’oggi di Dio, l‘unica porta d’accesso nel mondo alla venuta finale del Signore. “Beati quei servi che il Signore alla sua venuta troverà vigilanti!” (Lc 12,37).

 

In tutto questo l’estrema vigilanza, l’estrema sapienza, il vero discernimento consisteranno nel mettere la nostra debolezza, la nostra pochezza, la nostra povertà davanti al Signore: noi cerchiamo di andare incontro al Signore, il quale però già ci viene incontro, e porterà certamente a compimento, lui che è fedele e sapiente, lui che ci ama di amore eterno, quanto ha iniziato in noi (cf. Fil 1,6).