Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

«Va’ a Ninive, la grande città» (Gn 1,2; 3,2)

16/03/2012 00:00

ENZO BIANCHI

Lectio Divina,

«Va’ a Ninive, la grande città» (Gn 1,2; 3,2)

Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: «Alzati, va’ a Ninive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico». Giona si alzò e andò...

Milano, San Carlo al Corso, 16 marzo 2012
Dialoghi di Quaresima: «Città amica e nemica»

IL PROFETA E LA CITTÀ

 

Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: «Alzati, va’ a Ninive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico». Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore. Ninive era una città molto grande, larga tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta». I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. [...] Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.
Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato. Pregò il Signore: «Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!». Ma il Signore gli rispose: «Ti sembra giusto essere sdegnato così?». Giona allora uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all’ombra, in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città. Allora il Signore Dio fece crescere una pianta di ricino al di sopra di Giona, per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Giona provò una grande gioia per quel ricino. Ma il giorno dopo, allo spuntare dell’alba, Dio mandò un verme a rodere la pianta e questa si seccò. Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento d’oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona, che si sentì venire meno e chiese di morire, dicendo: «Meglio per me morire che vivere». Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per questa pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato da morire!». Ma il Signore gli rispose: «Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! E io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?».
(Gn 3,1-5.10; 4,1-11)

 

Introduzione


In questo cammino quaresimale verso la Pasqua state percorrendo un itinerario di riflessione sulla città, il luogo del vostro abitare, del vostro lavorare, delle vostre relazioni e della vostra convivenza sociale: la città costruita e abitata dagli uomini, in mezzo ai quali ci sono anche i cristiani, comunità-chiesa che confessa la sua fede in Gesù Cristo e lo riconosce come unico Signore. Insieme a tutti gli altri uomini e donne i cristiani si interrogano sulla città che abitano e la giudicano, anche perché dalla città dipende la loro vita, la loro felicità e la loro umanizzazione. E così la città a volte è sentita come una realtà positiva, come una città «amica», abitabile e luogo di umanizzazione, di crescita umana; altre volte invece si presenta come «nemica», ossia come un luogo che contraddice la qualità della vita, delle relazioni, quando non è addirittura segnata dalla barbarie e dalla disumanità. In ogni caso, la città da alcuni millenni – da quando cioè si è passati dalla civiltà pastorale e agricola a quella urbana (da urbs, «città») – è diventata la realtà più decisiva per il progresso e il cammino culturale dell’umanità. Oggi, lo sappiamo tutti, il mondo è segnato dalla presenza di città nelle quali risiedono milioni e milioni di abitanti, e tra queste anche la vostra, Milano.
Nella Bibbia la città ha un grande rilievo: basti pensare al fatto che Dio consegna all’uomo da lui creato un giardino (cf. Gen 2,8) ma alla fine della storia – ci testimonia l’Apocalisse – ci sarà una città, la nuova Gerusalemme che scende dall’alto ma che anche gli uomini hanno contribuito a costruire (cf. Ap 21-22). D’altra parte è vero che il libro della Genesi, collegando l’invenzione della città alla figura di Caino (cf. Gen 4,17), ci testimonia una visione tragica (non negativa) sulla città da parte della Bibbia. Nella città il male si fa più evidente, la tragedia dei rapporti e delle relazioni segnate dalla violenza è vissuta nella prossimità. E tuttavia è proprio la città che permette la socialità, la solidarietà, la communitas; è la città che fa uscire dalla logica della tribù e del clan e consente di vivere la pluralità, la diversità. 
Certamente la città può diventare Babele (cf. Gen 11,1-9), quando in essa appare il potere totalitario che vuole dominare su tutta la terra, imponendo una sola cultura, quella dominante, e impedendo gli itinerari multiformi dell’umanizzazione. Secondo le Scritture la città può diventare Ninive o Babilonia, l’impero totalitario dell’oriente, oppure l’Egitto o Roma, l’impero totalitario di occidente, rispetto alla città dei credenti, la piccola Gerusalemme, città di Dio. Sì, nella storia la città può essere Babilonia, Roma…, Berlino, Mosca, New York, ma può essere anche una città in cui si cercano la giustizia, la pace, la qualità della convivenza e si tenta insieme di percorrere vie di umanizzazione.
Fatta questa premessa, occorre innanzitutto porsi una precisa domanda: qual è il rapporto dei cristiani con la città?

 

1. Il rapporto tra i cristiani e la città 
I cristiani sono nati nella città di Gerusalemme ma si sono dilatati come comunità, almeno nei primi tre secoli, soprattutto nelle città: Antiochia, Corinto, Roma e tante altre. Ora, tutti voi conoscete senza dubbio l’A Diogneto, uno straordinario testo cristiano del II secolo. Si legge in questo scritto:

 

I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per abiti. Non abitano neppure città proprie, né usano una lingua particolare, … ma testimoniano uno stile di vita mirabile e, a detta di tutti, paradossale … Risiedono nella loro patria ma come stranieri domiciliati (pároikoi); a tutto partecipano come cittadini e a tutto sottostanno come stranieri (xénoi); ogni terra straniera è patria per loro e ogni patria è terra straniera (A Diogneto V,1-2.4-5).

 

Decodificando questo brano, si può affermare che i cristiani non pretendono di reggere e guidare da soli la società, sono lontani da ogni logica di imposizione delle loro convinzioni; nello stesso tempo, per loro non c’è nessuna evasione dalla storia, dall’impegno di costruire la polis insieme agli altri concittadini. Il Nuovo Testamento ci testimonia che il cristianesimo si è dilatato di città in città per tre secoli attraverso l’impero romano, subendo persecuzioni cruente e inimicizie: mai però i cristiani hanno disertato (cf. A Diogneto VI,10) e sono fuggiti. Anzi, anche quando si vedevano costretti a definire la città persecutrice di Roma come Babilonia (cf. Ap 14,8; 16,19, ecc.), continuavano ad abitare la città e a rivolgerle la buona notizia del Vangelo. Fedeli alla terra, i cristiani sono fedeli alla città anche quando essa è loro nemica; sono pienamente solidali con gli uomini in mezzo ai quali vivono; sono sempre impegnati nel cammino di umanizzazione che riguarda tutti. È la vocazione cristiana che richiede ai cristiani la capacità di essere profeti per la città, inviati alla città per portarle il Vangelo, per recarle l’annuncio della pace, per servire l’umanità.
Ma i cristiani sono capaci di vivere questa missione? Sanno mostrare la «differenza cristiana» tra gli uomini? Sanno costruire la città insieme agli altri, senza per questo abdicare alla loro fede e alle istanze evangeliche che li abitano? E con quale stile, con quali sentimenti i cristiani abitano la città e vivono in essa da discepoli di Gesù Cristo? Queste sono domande pressanti, urgenti, per rispondere alle quali ci viene in aiuto la vicenda del profeta Giona.

 

2. Giona, profeta disobbediente 

Stando alla finzione letteraria, Giona (cf. 2Re 14,25) è un profeta inviato da Dio verso la metà dell’VIII secolo a.C. a Ninive, la capitale dell’Assiria, il grande impero totalitario orientale dell’epoca:

 

Fu rivolta a Giona, figlio di Amittai, questa parola del Signore: «Àlzati, va’ a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me» (Gn 1,1-2).

 

Ninive è una città nemica del piccolo regno di Israele, è una potenza che lo distruggerà nel 722/721 e deporterà molti ebrei. Ma Dio invia il profeta proprio al cuore della città per eccellenza del nemico. È come se nel 1938 Dio avesse chiesto a qualcuno (o meglio, è come se qualcuno avesse ascoltato la sua richiesta): «Va’a Berlino e profetizza che il male commesso dal nazismo ha colmato la misura»…
La reazione di Giona non si fa attendere: preso dalla paura egli scappa! Se Ninive è a oriente, al di là del deserto, il profeta va a occidente: scende al porto di Giaffa per fuggire attraverso il mare fino a Tarsis, in Spagna (cf. Gn 1,3). La paura nei confronti del potente, di chi domina con malvagità e prepotenza induce a non fare il profeta, a non parlare a nome di Dio, a tacere: ecco perché il testo sottolinea che Giona fugge «lontano dal Signore» (ibid.). Il profeta riceve da Dio una missione ma si chiude nel mutismo, non va a denunciare il male commesso dalla città di Ninive, fa finta di niente. 
L’interesse, l’illusione che per vivere meglio si debba fingere di non vedere, la paura delle conseguenze di una parola pronunciata con parresía e franchezza: tutto questo spinge a tacere, il che equivale a fuggire. Si tratta di una verità valida ieri come oggi: sapete infatti quanta pavidità, quanta paura di dire la verità sia diffusa nella società e anche nella chiesa. Fare i profeti costa caro, perché se non si è allineati si è emarginati, se non si applaude sempre si è diffidati, se non si dà ragione a chi detiene il potere si è osteggiati… E allora – si pensa e sovente si dice – meglio stare zitti, meglio l’omologazione al «così fan tutti», meglio adulare e dire sempre sì: quanta viltà anche nella chiesa, oltre che nella città! Sì, fare i profeti costa incomprensione, isolamento, esclusione dal benessere della città, impossibilità di partecipare alla spartizione della torta del potere. Eppure ognuno di noi ha ogni giorno almeno un’occasione di non essere vile, di dire la verità, di non tacere di fronte al male, all’ingiustizia, alla falsità. Ma in queste situazioni siamo forse tutti come Giona, pronti alla fuga?
Dio però impedisce a Giona la buona riuscita del suo progetto. Invia una tempesta che blocca il tragitto della nave e minaccia di distruggerla. Poi Giona, individuato dall’equipaggio come la causa di questa sciagura, è gettato in mare dove rimane per tre giorni e tre notti nel ventre di un grosso pesce (cf. Gn 1,4-2,1). Qui egli si mostra pentito del rifiuto opposto a Dio, eleva a lui una lunga preghiera e infine viene rigettato dal pesce sulla spiaggia (cf. Gn 2,2-11). A questo punto Dio gli rinnova la missione: «Àlzati, va’ a Ninive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico» (Gn 3,2). Questa volta Giona vi si reca e predica per tre giorni attraversando tutte le vie della città e chiedendo la conversione, il cambiamento del modo di vivere (cf. Gn 3,4). Egli ha ancora paura, teme di essere ucciso da questi nemici di Israele, ma agisce secondo il comando del Signore. Il risultato è sbalorditivo: la grande città peccatrice si converte nella sua totalità (persino gli animali!), piange le proprie malvagità e fa digiuno (cf. Gn 3,5-9). Allora «Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece» (Gn 3,10).
Ciò che Dio desiderava, la conversione dalla malvagità, si è puntualmente avverato, eppure Giona si arrabbia, va in collera: «Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato» (Gn 4,1). Nella sua ottica Ninive va punita per il male che ha commesso; si sarà pure convertita, ma la pena le deve essere assegnata, perché senza castigo e punizione non ci può essere neppure giustizia. In breve, questo è il suo ragionamento: se Dio è giusto, deve punire i colpevoli. Anche noi – se siamo sinceri con noi stessi – la pensiamo come Giona: se il male non è punito, non c’è più giustizia. Quanti cristiani affermano: «Sì, Dio è certamente misericordioso ma è anche giusto», e dunque pensano alla giustizia di Dio in maniera umana. Ma la giustizia di Dio non è la nostra (cf. Is 55,8-9), è la sua: è una giustizia che è sempre nello stesso tempo anche misericordia e perdono.
Giona però non sopporta che la pena non arrivi. Dio allora gli chiede: «Ti sembra giusto essere sdegnato così?» (Gn 4,4). Ma egli si chiude in un altero silenzio, esce da Ninive e va su una collinetta a oriente della mura: «si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all’ombra, in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città» (Gn 4,5). È convinto che Dio, se davvero è giusto, farà scendere il fuoco su Ninive e la brucerà, e si pone in attesa del compimento di quella che lui crede essere la giustizia di Dio. A questo punto Dio decide di dare una lezione al profeta disobbediente che sembra non conoscere il suo cuore. Mentre Giona dorme Dio gli fa crescere sulla testa un alberello, il qiqajon, che gli fa ombra e gli è di conforto nell’arsura del deserto. Il profeta si rallegra di quell’ombra, ma l’indomani Dio invia il vento secco del deserto e fa seccare in un momento il qiqajon (cf. Gn 4,6-7). Allora Giona, colpito dal sole, si infuria «e chiede di morire, dicendo: “Meglio per me morire che vivere”» (Gn 4,8).
È a questo punto che il libro si conclude con parole che costituiscono il suo vero insegnamento (meraviglioso a livello letterario è il fatto che l’ultima parola sia una domanda, a cui ogni lettore è chiamato a rispondere), per chi vuole e sa ascoltarlo:

 

Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per questa pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato da morire!». Ma il Signore gli rispose: «Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! E io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?» (Gn 4,9-11).

Sì, Dio è misericordioso, buono e compassionevole verso la città, anche quando la città è peccatrice.

 

3. Le lezioni del libro di Giona
Ecco la lezione che il libretto di Giona dà agli ebrei ritornati dall’esilio, impegnati a declinare la loro fede come esclusivismo (cf. Ne 13,1-3.23-31), e dunque tentati di considerare ogni città pagana come nemica.
Ecco la lezione per i cristiani che vivono nella città, i quali nella loro paura del confronto sono tentati di non annunciare la buona notizia, sono vili e pigri, incapaci di infondere fiducia tra gli uomini.
Ecco la lezione per i cristiani che si credono i soli giusti, che sentono la fede come una pretesa e pensano di doverla imporre agli altri, non di proporla annunciando che «Dio è amore» (1Gv 4,8.16).
Ecco la lezione per i cristiani che parlano di giustizia di Dio confondendola con quella partorita dai loro cuori piccoli e duri, e non vogliono accogliere la vera giustizia di Dio alla quale sono immanenti la misericordia e il perdono per tutti, anche per i nemici di Dio e dei cristiani.
Ecco la lezione per i cristiani che sono gelosi della loro fede, spesso ridotta a ideologia, che praticano e confessano la fede quale strumento utile per godere di privilegi rispetto agli altri, per creare delle lobby di pressione e così acquisire potere.
Ecco la lezione per i cristiani che giudicano sempre negativo il tempo in cui vivono, nutrendo nostalgie per il passato; gente che vive senza adesione alla realtà e al mondo in cui Dio li ha posti e dal quale Gesù ha pregato che non siano tolti: «Padre, … non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno» (Gv 17,1.15).
Ecco la lezione per i cristiani convinti che il castigo riguardi sempre gli altri e mai pensano che anche loro possano essere castigati.
Facendo tesoro di queste lezioni, i cristiani sono chiamati a essere profeti innanzitutto dell’amore di Dio per la città degli uomini; devono portare a tutti gli uomini la Parola di Dio, la quale indica sempre un cammino di umanizzazione; devono annunciare il messaggio cristiano che è sempre a servizio dell’uomo e della città. Tutto questo però va fatto con lo stile cristiano, con umiltà, dolcezza (cf. 1Pt 3,16), con spirito di comunione, senza accenti che escludono, giudicano o condannano. È significativo che Gesù abbia insistito sullo stile della missione cristiana, più che sul contenuto che è breve e semplice: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è avvicinato; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15; cf. Mt 4,12). Ci ha mandati «come pecore in mezzo ai lupi» (Mt 10,16; cf. Lc 10,3); ci ha mandati a benedire e non a maledire (cf. Lc 6,28), a radunare e non a erigere muri e steccati.
Oggi, in un mondo plurale, in una città che non è più cristiana ma multiforme per culture, lingue, religioni, etiche, spiritualità, siamo tentati di arroccarci in una cittadella, di assumere posizioni difensive, di nutrirci di ansia e di paure proprie della minoranza. E così diventiamo lievito inutile non presente nella pasta (cf. Mt 13,33; Lc 13,21), sale che ha perso il suo sapore (cf. Mc 9,50 e par.), luce nascosta sotto il moggio (cf. Mc 4,21 e par.). Siamo una minoranza – così come Giona era solo! –, ma se siamo significativi, se siamo capaci di profezia, di parlare a nome di Dio, saremo innanzitutto fedeli alla vocazione ricevuta, ma poi sapremo anche comunicare messaggi, inoculare diastasi di fiducia, di speranza per gli uomini. E se, come chiesa, sapremo essere luogo di dialogo e di libertà, allora diventeremo «casa di comunione» (Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Novo millennio ineunte [6 gennaio 2001] 43) e quindi anche «scuola di comunione» (ibid.) per tutti gli abitanti della città.

 

Conclusione


Vorrei concludere questa riflessione sulla missione dei cristiani nella città evidenziando due istanze che mi sembrano molto urgenti. 
In primo luogo – come già si accennava poc’anzi – viviamo in una società e in città (Milano ma non solo) segnate dalla differenza, dall’alterità, dalla pluralità. Basta percorrere una strada o salire sulla metropolitana: convivono a stretto contatto uomini e donne del sud del Mediterraneo, dell’Africa, dell’est europeo, dell’estremo oriente e delle Americhe. È una novità degli ultimi decenni: quegli stranieri che chiamavamo «infedeli» sono accanto a noi, lavorano con noi, vivono e pregano diversamente in mezzo a noi. Di fronte a questa nuova situazione è anche legittimo provare paura, perché la diversità sconosciuta provoca paura. E la paura non va rimossa o negata, bensì razionalizzata; non va strumentalizzata per fini politici ma va letta e compresa, per poterla assumere e trascendere. Il messaggio del Vangelo, di Gesù che nel giudizio finale dirà a ciascuno di noi: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35), deve aiutarci a vincere le paure e ad aprire cammini di conoscenza reciproca, di sospensione dei pregiudizi, di confronto tra culture e spiritualità, di rispetto, per giungere a edificare insieme la città. Noi abbiamo bisogno di loro e loro sono venuti dove c’è il pane, come sempre è accaduto nella storia…
Da cristiani dobbiamo esercitare con intelligenza l’accoglienza e sentire la presenza degli stranieri come un dono e una responsabilità. Gli Atti degli apostoli ci testimoniano che la chiesa nasce plurale, perché a Pentecoste il Vangelo è proclamato in modo che le diverse lingue e i diversi stranieri presenti a Gerusalemme – «Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, … della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani … Cretesi e Arabi» (At 2,9-11) – possano ascoltarlo e proclamarlo a loro volta. Fin dalle origini la chiesa è chiamata a essere plurale, una comunione di diversi, una chiesa amica che non esclude ma accoglie, che non è arcigna né matrigna ma è una presenza di comunione nelle città segnate da divisioni, frammentazioni, opposizioni, a volte anche barbarie. Non posso non ricordare qui che in un discorso tenuto il 6 dicembre 1995, in occasione della festa di S. Ambrogio, il cardinale Carlo Maria Martini parlava della chiesa come di una «comunità alternativa», capace di essere differente: non però nella chiusura o nell’arroccamento, bensì nell’ascolto, nel dialogo, nella simpatia verso i diversi, gli «altri» presenti a Milano.
La seconda urgenza è l’attenzione da riservare ai primi clienti di diritto della Parola di Dio che sono i poveri, gli ultimi sempre più presenti nelle nostre città. Quando ero giovane, la campagna era il luogo in cui passavano mendicanti e poveri. Oggi invece costoro preferiscono la città, dove ci sono già altri poveri. Questa è una delle realtà che più fa soffrire: uomini e donne che esibiscono pubblicamente la loro povertà dormendo sotto i portici e chiedendo la carità, ma anche uomini e donne senza lavoro, che ricevono un salario minimo con il quale faticano a campare, vittime della crisi economica che si abbatte sui bisognosi. Tutto questo senza dimenticare che in ogni persona c’è un aspetto di bisogno: a volte economico (povertà), a volte sociale (i senza voce, gli ultimi, coloro che non sono ascoltati), a volte esistenziale (soli, vecchi, emarginati, malati, abbandonati). La città ci ospita tutti: coloro che sono bisognosi in modo più visibile desiderano potersi fidare di noi, attendono che mettiamo fiducia in loro, che li difendiamo, che li guardiamo in faccia dicendo loro semplicemente: «Coraggio, voglio stare vicino a te». La città è vicinanza, prossimità tra gli uomini e le donne, è l’occasione più propizia per amare il prossimo, ovvero chi ci è vicino, o meglio chi rendiamo vicino (cf. Lc 10,36).
Ecco cosa attende la città da noi cristiani. Attende che usciamo da noi stessi, dal nostro narcisismo, dal nostro individualismo, e ci impegniamo a tracciare orizzonti di convergenza politica, economica ed etica con gli altri. Non c’è altra via per l’umanizzazione della città: in caso contrario avanzeranno il deserto e la barbarie. Sì, continuiamo ad abitare a Ninive, ma annunciando l’amore, la misericordia di Dio e vivendo nella compagnia degli uomini con fiducia, con speranza, tentando di amare e accettando di essere amati.

 

Enzo Bianchi
Priore di Bose