Lourdes, 26 ottobre 2007
Ecclésia 2007
Abbiamo ascoltato dal vangelo secondo Matteo quattro brevi parabole, o meglio due coppie di parabole gemelle Lectio divina del priore di Bose, ENZO BIANCHI tenuta a Lourdes venerdì 26 ottobre 2007 in occasione di Ecclésia 2007, un raduno di 7500 catechisti e operatori pastorali di tutte le diocesi della Francia con la partecipazione di 40 vescovi della Conferenza Episcopale Francese.
Introduzione
Abbiamo ascoltato dal vangelo secondo Matteo quattro brevi parabole, o meglio due coppie di parabole gemelle: innanzitutto la similitudine del granellino di senapa collegata con quella del lievito (cf. Mt 13,31-33), poi le parabole quasi sovrapponibili del tesoro e della perla (cf. Mt 13,44-46).
Tutte queste parabole sono introdotte da Gesù con l’espressione: «Il regno dei cieli è simile…», che potremmo anche tradurre: «Avviene al regno dei cieli quello che avviene a…». In queste parabole Gesù cerca di far capire ai discepoli la storia del regno di Dio, e per fare questo ricorre a immagini quotidiane, a ciò che è consueto, come fosse un evento particolare. Gesù non usa mai immagini statiche, non ricorre a discorsi astratti per illustrare il regno dei cieli, il regno di Dio, ma crea immagini di vita, perché il Regno è una realtà storica, viva, è un evento dinamico che si sviluppa con una forza autonoma.
Tutte queste parabole sono raccolte da Matteo in unico grande discorso, il cosiddetto «discorso parabolico» (cf. Mt 13,1-51): in esso vi sono ben sette parabole, due delle quali, quella del seminatore e quella della zizzania, complete anche di una spiegazione fornita da Gesù (cf. Mt 13,18-23.36-43). Ma cerchiamo di ascoltare lo «sta scritto» e il messaggio contenuto in queste parole di Gesù.
1. Il granellino di senapa e il lievito
[Gesù] espose un’altra parabola [ai suoi discepoli]: «Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami». Un’altra parabola disse loro: «Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e nascosto in tre staia di farina perché tutta si fermenti» (Mt 13,31-33).
Nella prima parabola si racconta l’azione di un uomo che semina nella terra un granellino di senapa: questo cresce, si sviluppa in modo irresistibile e diventa addirittura un albero su cui gli uccelli possono posarsi. Qui però il regno dei cieli non è paragonato al seme in sé, ma alla vicenda del seme: tutta l’attenzione cade sullo sviluppo straordinario del seme. È il seme più piccolo che esista, è di una piccolezza proverbiale, ma una volta deposto in terra, seminato, diventa un vero albero. Sì, l’attenzione è posta sul momento iniziale e su quello finale, e dunque il messaggio va colto nell’opposizione «il più piccolo/il più grande».
Perché questo accade? Perché il seme ha una forza, una potenza vitale. Anche nelle parabole precedenti, quelle sul seme seminato in diversi tipi di terreno (cf. Mt 13,1-9) e sul seme accanto al quale è germinata la zizzania (cf. Mt 13,24-30), l’accento cadeva sulla potenza del seme che è la parola di Dio: «viva ed efficace (energhés) è la parola di Dio» (Eb 4,12), «il Vangelo è forza (dýnamis) di Dio» (Rm 1,16). Ecco, il seme, la parola di Dio non è un sassolino inerte, ma un seme piccolo eppure pieno di forza e di vita: quantitativamente poco visibile, ma qualitativamente molto forte!
E allora lo scopo della parabola di Gesù non consiste nel consolare i credenti che vivono in un oggi scoraggiante, assicurando loro un avvenire grandioso: no, lo scopo è quello di spiegare il senso positivo ma nascosto nell’oggi. Non è l’albero che dà la forza al seme, ma è il seme che con la sua forza si sviluppa in albero! Così accade per il regno dei cieli: nell’oggi dei credenti appare sempre una realtà piccola, ma nel futuro sarà manifestata la sua grandezza. Il discepolo deve guardare al contrasto tra l’oggi e il futuro, ma deve anche capire che il futuro dipende proprio dalla piccolezza dell’oggi. La parabola è dunque rivelazione, alza il velo sulla vicenda del Regno e dichiara che i criteri di grandezza e dell’apparire, criteri mondani, non devono essere applicati alla storia del regno di Dio: la forza del Regno non va confusa con il fascino della grandezza, declinabile volta per volta come numero, prestigio, potere…
Nel contempo, la parabola è anche ammonizione: la piccolezza non contrasta con la vera potenza. Basta avere fede pari a un granellino di senapa per spostare un monte (cf. Mt 17,20); nella nostra piccolezza «noi siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è ancora stato manifestato» (1Gv 3,2); resta inoltre sempre vero che lo straordinario della nostra vita è nascosto, come «la nostra vita è nascosta con Cristo in Dio» (cf. Col 3,3)… Occorre avere fede: la parola di Dio lavora in noi ed è efficace senza che noi sappiamo come (cf. Mc 4,27)!
Ed ecco parallelamente la seconda parabola di Gesù, o meglio la similitudine del lievito che fa fermentare tutta la pasta. Nelle lettere paoline c’è un’immagine negativa del lievito (cf. 1Cor 5,6-8; Gal 5,9), ma qui la similitudine rovescia, capovolge tale concezione, e così l’attenzione del discepolo è catturata ancor più efficacemente: anche il bene è contagioso, non solo il male.
E così una donna mette il lievito, poco lievito, in una grande massa di pasta – circa 40 kg di farina! –; anzi, il testo dice che la donna «ha nascosto» il lievito, per mettere in risalto che la presenza del Regno è nascosta, velata. Eppure ecco l’insospettata forza del lievito: di nuovo una realtà tanto piccola ne produce una tanto grande… Come nella parabola precedente l’accento cadeva sulla piccolezza del seme, qui cade sul lievito: piccola cosa, piccola realtà, ma capace di grande trasformazione.
È proprio così: l’evento di Gesù era piccola cosa, pressoché sconosciuta agli storici dell’impero; l’evento della vita cristiana è poca cosa e la comunità cristiana è piccola nella compagnia degli uomini, ma la sua vera capacità, la sua forza si vedrà alla fine… Dunque i cristiani non si lascino sedurre dalla grandiosità ne si abbattano per la piccolezza: la forza del Vangelo non è misurabile con i criteri mondani! Sì, come si legge in uno splendido passaggio dell’A Diogneto, i cristiani vivono nel mondo come gli altri uomini eppure sono l’anima del mondo (cf. V,1-2; VI,1), e la loro «differenza cristiana» è benedizione per tutti gli uomini, anche se non si vede…
2. Il tesoro e la perla
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13,44-46).
Dopo la spiegazione della parabola della zizzania (cf. Mt 13,36-43), Gesù espone altre due brevi parabole, quelle del tesoro e della perla, che sono quasi sovrapponibili, una sorta di ripetizione l’una dell’altra: questo consente di ribadire l’essenziale.
Ci sono due figure diverse in scena: un bracciante agricolo e un ricco gioielliere, che però non sono i protagonisti delle parabole, pur essendo loro che agiscono, «trovano, vendono, comprano». No, i veri protagonisti sono il tesoro e la perla, che si impadroniscono dei due uomini, li afferrano e causano le loro azioni. Azioni che non sono straordinarie, potremmo quasi dire che sono ovvie, perché davanti alla scoperta di un tesoro insperato o di una perla preziosa è naturale agire come loro: ma la novità sta proprio in questo.
Ma cerchiamo di ascoltare e interpretare le parabole. Il contadino, che probabilmente non è ricco, trova un tesoro in un campo non suo; allora con molta sapienza «lo nasconde subito; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo». Il gioielliere che è in cerca di perle preziose, quando «ne trova una di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra». Uno non è ricco, l’altro è molto ricco, ma entrambi – ed è questo che è decisivo! – vendono tutto quello che possiedono per potersi impadronire del tesoro e della perla. In loro non c’è nessun rimpianto, non fanno un sacrificio, bensì un affare.
Ecco, quello che è accaduto a queste due persone accade anche ad altri uomini e donne: il regno di Dio è intravisto, è trovato quando capita all’improvviso oppure quando è cercato, e la scelta sapiente è quella di lasciare tutto, vendere tutto quello che si possiede, per entrare in possesso del Regno. Così hanno fatto i discepoli di Gesù: chiamati da lui, «abbandonato tutto lo seguirono» (Lc 5,11; cf. Mt 4,20.22); così non ha fatto il giovane ricco, che all’invito di Gesù: «va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri … poi vieni e seguimi» (Mt 19,21), non ha avuto il coraggio e la forza di fare questo, e così «se ne andò triste, poiché aveva molti beni» (Mt 19,22). Era già saturo di beni, e così non comprese il tesoro, la perla che avrebbe potuto avere. La tristezza di questo giovane si contrappone alla gioia del contadino e del mercante, che invece hanno trovato il tesoro…
Queste due parabole insegnano che la conversione, la sequela di Gesù, che esige un pronto e radicale distacco, nasce dall’aver trovato un dono inaspettato: il regno dei cieli. Chi segue Gesù dunque non dice: «Ho lasciato», ma: «Ho trovato un tesoro»; e non umilia nessuno, non si sente migliore degli altri, ma è semplicemente nella gioia per aver trovato il tesoro. La misura dell’essere discepolo di Gesù è l’appartenenza a lui, non il distacco dalle cose: una vera sequela si fa spinti dalla gioia, come ci mostra il contadino.
Anche queste parabole sono rivelazione: «Il mistero nascosto da secoli e da generazioni ora è manifestato da Dio ai suoi santi: Cristo in voi, speranza della gloria» (cf. Col 1,26-27). Sì, Gesù Cristo è il tesoro vero, la perla preziosa: come dice Paolo, «a causa sua ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3,8).
Enzo Bianchi