Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Una comunione d’amore

11/06/2017 01:00

ENZO BIANCHI

Vangelo della domenica 2017,

Una comunione d’amore

16 Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17 Dio, infatti, non ha...

11 giugno 2017

 

Santissima Trinità


di ENZO BIANCHI

 

Gv  3,16-18

16 Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17 Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18 Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio.

 

È la domenica in cui confessiamo la Triunità di Dio. In verità la Triunità di Dio è confessata dalla chiesa sempre, in ogni liturgia, ma recentemente si è sentito il bisogno di istituire una festa teologico-dogmatica, che non è conosciuta né dall’antichità cristiana né, tuttora, dalla tradizione cristiana orientale. È comunque l’occasione di una lode, di un ringraziamento, di un’adorazione del mistero del nostro Dio, comunione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito santo.

 

Qualcuno può essere stupito che il testo evangelico scelto dalla chiesa per questa festa parli in modo manifesto solo del Padre e del Figlio, mentre sembra fare silenzio sullo Spirito santo. In realtà lo Spirito è presente come “amore di Dio” e come “compagno inseparabile del Figlio” (Basilio di Cesarea), perché là dove sta scritto che “Dio ha tanto amato il mondo”, il cristiano comprende che Dio ha amato il mondo con il suo amore che è lo Spirito santo del Padre e del Figlio. È stato lungo il cammino della rivelazione, e dunque dell’adesione a essa da parte dei credenti, riguardo alla Triunità di Dio. Lo riconosce con finezza Gregorio di Nazianzo: “L’Antico Testamento proclamava in modo chiaro il Padre, in modo più oscuro il Figlio; il Nuovo Testamento ha manifestato il Figlio e ha fatto intravedere la divinità dello Spirito; ora lo Spirito … ci accorda una comprensione più chiara di se stesso … Così attraverso ascensioni, avanzamenti, progressi di gloria in gloria, la luce della Triunità brillerà con ancora più chiarezza” (Discorsi teologici 31,26).

 

La Triunità di Dio non è una formula cristallizzata e non occorre nominare sempre le tre persone per evocarla: Padre, Figlio e Spirito santo sono termini che indicano una vita di amore plurale, comunitario, sono una comunione che noi tentiamo di esprimere con le nostre povere parole, sempre incapaci di dire il mistero, di esprimere la rivelazione del nostro Dio. Non è un caso che spesso, per dire qualche nostra parola sulla Triunità di Dio, dopo secoli ricorriamo ancora all’intuizione di Agostino che vede nel Padre l’Amante, nel Figlio l’Amato e nello Spirito l’Amore che intercorre tra i due. E San Bernardo di Clairvaux, dal canto suo, leggeva la Triunità di Dio come un bacio “circolare” ed eterno: “Il Padre dà il bacio, il Figlio lo riceve e il bacio stesso è lo Spirito santo, colui che è tra il Padre e il Figlio, la pace inalterabile, l’amore indiviso, l’unità indissolubile” (Sermoni sul Cantico dei cantici 8,2).

 

Ma soffermiamoci sul brano evangelico. Siamo nel contesto del colloquio notturno tra Gesù e Nicodemo (cf. Gv 3,1-21), un “maestro di Israele” (Gv 3,10) che rappresenta la sapienza giudaica in dialogo con Gesù. È questo un dialogo faticoso per Nicodemo, che ha fede in Gesù ma fatica ad accogliere la novità della rivelazione portata da questo rabbi “venuto da Dio”. Gesù risponde alle domande del suo interlocutore, ma l’ultima risposta, quella più lunga, sembra contenuta all’interno di una meditazione dell’autore del quarto vangelo. Dunque, nei versetti che oggi la chiesa ci offre è Gesù a parlare oppure si tratta di una meditazione dell’evangelista? In ogni caso sono parole di Gesù non certo riportate tali e quali, ma meditate, comprese e ridette nel tessuto di una comunità cristiana che ha cercato di crederle e di viverle.

 

Così si apre il brano: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui … abbia la vita eterna”. Subito prima sta scritto: “Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15). Queste due affermazioni sono parallele e si spiegano a vicenda. Affinché ogni essere umano possa credere, aderire al Figlio dell’uomo e mettere la propria fiducia in lui, occorre che conosca l’amore di Dio per tutta l’umanità, per questo mondo. Tale amore di Dio ha avuto la sua epifania in un atto preciso, databile, localizzabile nella storia e sulla terra: il 7 aprile dell’anno 30 della nostra era un uomo, Gesù di Nazaret, nato da Maria ma Figlio di Dio, è stato innalzato sulla croce, dove è morto “avendo amato fino alla fine” (cf. Gv 13,1), e in quell’evento tutti hanno potuto vedere che Dio ha talmente amato il mondo da consegnargli il suo unico Figlio, da lui “inviato nel mondo”. In quell’ora della croce, “l’ora di Gesù”, più che mai è stata manifestata la gloria di Gesù come gloria di colui che ha amato fino alla fine, narrando (exeghésato: Gv 1,18) l’amore di Dio attraverso l’offerta della sua vita a tutti, senza discriminazioni. Quella è stata l’ora dell’innalzamento del Figlio dell’uomo, al quale tutti gli umani, di tutti i secoli e di tutte le generazioni, guardano come al “trafitto per amore” (cf. Zc 12,10; Gv 19,37; Ap 1,7).

 

Ecco il dono dei doni di Dio: dono gratuito, dono di se stesso, dono irrevocabile e senza pentimento; dono mai da meritare, ma da accogliere con fede; dono fatto solo per un amore folle di Dio, il quale ha voluto diventare uomo, carne fragile e mortale (cf. Gv 1,14), per essere in mezzo a noi, con noi, e così condividere la nostra vita, la nostra lotta, la nostra sete di vita eterna. Ecco ciò che è accaduto con la venuta nella carne del Figlio di Dio e con la discesa dello Spirito che sempre è il compagno inseparabile del Figlio; ecco il mistero dell’amore di Dio vissuto in comunione, comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Quel mondo (kósmos) che a volte nel quarto vangelo è letto sotto il segno del male, del dominio di Satana, “il principe di questo mondo” (Gv 12,31; 16,11; cf. 14,30), qui è letto come umanità, come universo che Dio vide “cosa buona” (Gen 1,4.10.12.18.21.25) e “molto buona” (Gen 1,31), che egli ha amato fino alla follia, fino al dono di se stesso, dono che gli ha richiesto spogliazione, povertà, umiliazione. Essere salvati significa passare dalla morte alla vita definitiva, e questo è possibile per chi accetta il dono aderendo a Gesù Cristo, colui che dà lo Spirito della vita. Questo dono folle di Dio al mondo non ha come scopo il giudizio del mondo ma la sua salvezza: Dio vuole che l’umanità conosca la vita per sempre, la vita piena, che soltanto lui può darle.

 

Ma di fronte al dono resta la libertà umana. Il dono è fatto senza condizioni, dunque può essere accolto o rifiutato. Chi lo accoglie sfugge al giudizio e vive la vita per sempre, ma chi non lo accoglie si giudica da se stesso. Non è Dio che giudica o condanna, ma ciascuno, accogliendo o rifiutando l’amore, entra nella vita oppure si allontana dalla sorgente della vita, percorrendo una strada mortifera. Certamente troviamo qui espressioni di Gesù molto dure, radicali, ma esse vanno decodificate e spiegate. Se Gesù dice che “chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio”, non lo dice manifestando una condanna per le moltitudini di uomini e donne che non hanno potuto incontrarlo nella storia, perché appartenenti ad altri tempi o ad altre culture. Costoro, se avranno vissuto la loro esistenza in conformità all’esistenza umana di Gesù, contraddistinta dall’amore dei fratelli e delle sorelle, è come se avessero partecipato, pur con tutti i limiti umani, alla vita umana di Gesù; e così, senza conoscerlo, senza professare il suo Nome nella fede cristiana, conosceranno la vita eterna in lui e con lui. Ma chi ha avuto una vita gravemente difforme dalla vita umana di Gesù, e anzi in contraddizione con essa, non conoscendo l’amore, costui è già giudicato e condannato: non c’è per lui vita eterna.

 

La festa della Triunità di Dio dovrebbe non tanto indurci a speculazioni su questo mistero ineffabile, quanto piuttosto a fare esperienza della Triunità stessa nella chiesa, la quale ne è immagine, in quanto nata nel cuore del Padre, fondata sul Figlio e radunata dallo Spirito santo. La chiesa è il luogo in cui, per quanto possibile a noi umani, ci è dato di fare esperienza del cuore di Dio e della sua comunione plurale.

 

di Enzo Bianchi

Venosa (Potenza), Abbazia SS.ma Trinità, Battistero, V secolo

Una realtà come quella trinitaria come poteva essere narrata agli uomini e alle donne del medioevo?  Prendo come esemplificazione due espressioni artistiche vicine nello spazio, ma non nel tempo.

 

L’Abbazia di Venosa in Basilicata, chiamata anche l’incompiuta a causa delle alterne vicende di costruzione che hanno visto numerosi cantieri susseguirsi per approdare alla situazione architettonica attuale in parte non terminata.

 

In questa abbazia sono presenti una testimonianza antica del battistero triconco e alcune decorazioni su pietra che vanno dal periodo longobardo sino all’epoca normanna.

 

Restano le fondamenta del battistero del V secolo, a forma triconca, ovvero uno schema planimetrico costituito da un vano, per lo più quadrato, su tre lati dal quale si aprono tre absidi, i cui assi risultano quindi ortogonali fra loro. Questa forma viene acquisita dai cristiani dall’utilizzo che ne facevano i romani soprattutto per le strutture termali. All’interno dello spazio cristiano questa forma viene subito affiancata alla Trinità. Il rito del battesimo avviene, in questa architettura, all’interno di un vano a tre absidi uguali che riportano il fedele all’idea di entrare a far parte di quell’amore che contraddistingue le tre persone divine. La forma architettonica, però, non resta manchevole di un lato: conserva quindi una pianta quadrata anch’essa fortemente simbolica perché richiama la “terrestrità”. Il quadrato infatti è orientabile secondo gli assi di riferimento nord-sud-est-ovest: ogni battezzato è richiamato a entrare nell’amore trinitario e a irradiarlo sulla terra nella propria vita.

 

All’interno dell’abbazia, al di sopra di una lunetta è visibile una lastra di pietra decorata con alcuni simboli trinitari. La lastra è chiaramente stata riutilizzata da una struttura precedente, poiché la decorazione è stata tagliata per adattarla alla nuova forma. Si possono vedere tre “palmette” formate da un’asta e una terminazione a forma di giglio, anch’esso con tre punte. La ripetizione del numero tre è evidentemente un richiamo trinitario. Al di sopra dello spazio che divide le palmette posiamo lo sguardo su un simbolo interessante: tre pesci con la stessa testa.

 

In quello spazio ha trovato rappresentazione un simbolo denso di richiami. Ho fatto già riferimento al numero tre utilizzato in questa decorazione. In questo caso i tre pesci richiamano a loro volta al pesce-Cristo (Ἰχθύς parola che in greco indica il pesce e che per i primi cristiani era l’acronimo della frase 'Ιησοῦς Χριστός Θεoῦ Υιός Σωτήρ, che si legge Iesùs CHristòs THeù HYiòs Sotèr, in italiano: “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”). Con questo simbolo le qualità divine di Cristo si triplicano, ovvero si riferiscono a tutte e tre le persone della Trinità. Agli uomini e alle donne che varcavano questa soglia al di sopra della quale era presente la lunetta arrivava il messaggio di un Dio che è in sé una comunione e un continuo dialogo.

 

a cura di fratel Elia

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Venosa, pietra decorata della lunetta