1 maggio 2016
di ENZO BIANCHI
VI domenica di Pasqua C
Gv 14,23-29
23In quel tempo Gesù rispose ai suoi discepoli dicendo: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
25Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. 26Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
27Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. 28Avete udito che vi ho detto: «Vado e tornerò da voi». Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. 29Ve l'ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate.
In questo tempo pasquale la chiesa continua a offrirci i “discorsi di addio e di arrivederci” di Gesù (cf. Gv 13,31-16,33), collocati nell’ultima cena ma parola di Gesù glorificato, del Signore risorto e vivente che si rivolge alla sua comunità aprendole gli occhi sul suo presente nella storia, una volta avvenuto il suo esodo di Figlio da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1).
In quel contesto di ultimo incontro tra Gesù e i suoi, qualche discepolo gli pone delle domande: Pietro innanzitutto (cf. Gv 13,36-37), poi Tommaso (cf. Gv 14,5), infine Giuda, non l’Iscariota, il traditore. Costui gli chiede: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22). È una domanda che deve aver causato anche sofferenza nei discepoli: tutta quella avventura insieme a Gesù per anni, poi alla fine Gesù se ne va e sembra che nulla sia veramente cambiato nella vita del mondo, che tutto resti come prima… Una piccola e sparuta comunità ha capito qualcosa perché Gesù si è manifestato a essa, ma il grande mondo, gli altri, non hanno visto e non vedono nulla. A cosa si riduce quella venuta del Figlio dell’uomo sulla terra, quella vita in attesa del regno di Dio imminente che Gesù proclamava? Tutto qui?
Gesù allora risponde: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui”. Ecco perché Gesù non si manifesta al mondo che non crede in lui, che gli è ostile perché non riesce ad amarlo: per avere la manifestazione di Gesù occorre amarlo! Ogni volta che leggo queste parole, tremo e sono turbato in profondità: Gesù, figlio di Maria e di Giuseppe, uomo come noi, non ci chiede solo di essere suoi discepoli, di osservare il suo insegnamento, ma anche di amarlo, perché amandolo si compie ciò che lui vuole e facendo ciò che lui vuole lo si ama. In ogni caso, qui l’amore viene definito necessario per la relazione con Gesù. Amare, parola grossa, eppure è così: Gesù legge la relazione con il discepolo non solo nella fede, nell’obbedienza all’insegnamento, nella sequela, ma anche nell’amore. Possiamo dire che questo amore non è l’amore erotico, di desiderio dell’altra persona, come desideriamo amarci tra noi umani?
Questa dichiarazione di Gesù a volte fa vacillare la mia affermazione secondo cui Gesù chiede amore verso di sé come osservanza del suo comandamento nuovo (cf. Gv 13,34; 15,12). Qui Gesù dice che chi lo ama, nell’amore per lui resterà fedele alla sua parola, sarà amato dal Padre, così che il Padre e il Figlio verranno a mettere dimora presso di lui: inabitazione di Dio in chi ama Gesù! Se manca l’amore, non ci sarà riconoscimento di questa presenza quando Gesù sarà “assente”; dopo la sua vicenda terrena, infatti, una volta salito presso il Padre (cf. Gv 20,17), Gesù sarà assente, e tuttavia, se c’è amore, sarà presente nel suo discepolo. Di fronte a queste parole comprendiamo veramente poco. Ci può però venire in soccorso l’esperienza vissuta in una relazione di amore, quando l’amato/a è assente ma noi facciamo una certa esperienza della sua presenza in noi, nell’attesa che l’amato/a ritorni e con la sua presenza faccia a faccia rinnovi la relazione d’amore e la riempia.
Questa è un’esperienza dell’assente che possono conoscere solo gli amanti, e Gesù la promette indicandola però nello spazio della fedeltà alla sua parola, della realizzazione dei suoi comandi. Per questo qui specifica che la sua parola, quella data ai discepoli e alle folle in tutta la sua vita, non era parola sua, ma parola di Dio, del Padre che lo aveva inviato nel mondo. Questa parola ormai consegnata ai credenti, parola che resta, è capace di far sentire la presenza di Gesù quando sarà letta, meditata, ascoltata e realizzata dal cristiano; sarà un segno, un sacramento efficace, che genera la Presenza del Signore. Gesù non è più tra di noi con la sua presenza fisica, in quanto glorificato, risuscitato dallo Spirito e vivente presso il Padre, ma la sua parola, conservata nella chiesa, lo rende vivente nell’assemblea che lo ascolta, Presenza divina che fa di ogni ascoltatore la dimora di Dio. Quella “Parola (Lógos)” che “si è fatta carne (sárx)” (Gv 1,14) in Gesù di Nazaret si è fatta voce (phoné) e quindi lógos, parola degli umani, e in ogni credente si fa Presenza di Dio (Shekinà), si fa carne (sárx) umana del credente, continuando a dimorare nel mondo (cf. Gv 17,18).
Ma di tutta questa dinamica di presenza è assolutamente artefice lo Spirito di Dio che è anche lo Spirito di Cristo.
È l’altro Inviato dal Padre,
è l’altro Maestro inviato dal Padre,
è l’altro Consolatore inviato dal Padre.
Gesù sale al Padre e lo Spirito santo, che era suo compagno inseparabile, da Cristo scende su tutti i credenti come un Paraclito, chiamato accanto quale difensore e consolatore; sarà proprio lui a insegnare ogni cosa, facendo ricordare tutte le parole di Gesù e, nel contempo, rinnovandole nell’oggi della chiesa. C’è una sola differenza tra Gesù e il Consolatore: Gesù parlava di fronte ai discepoli che lo ascoltavano, mentre il Consolatore, che con il Figlio e il Padre viene ad abitare nel credente, parla come un “maestro interiore”, con più forza, potremmo dire… Non siamo orfani, non siamo stati lasciati soli da Gesù, e quel Dio che dovevamo scoprire fuori di noi, davanti a noi, ora dobbiamo scoprirlo in noi come presenza che ha messo in noi la sua tenda, la sua dimora.
Certo, nell’andarsene Gesù vede la sua opera, quella che umanamente ha realizzato in obbedienza al Padre, “incompiuta”, perché i discepoli non capiscono ancora, perché la verità nella sua pienezza non è ancora rivelabile e lui stesso avrebbe ancora molte parole da dire, molti insegnamenti da dare, molte cose da rivelare… Eppure ecco che Gesù ci insegna l’arte di “lasciare la presa”: se ne va senza ansia per la sua comunità e per il suo destino, ma anzi con la fiducia che c’è lo Spirito, il Consolatore e Difensore,
il quale agirà nella comunità da lui lasciata;
insegnerà molte cose necessarie e che egli stesso, Gesù, si era inibito di insegnare
perché la comunità non era pronta a recepirle e a comprenderle;
e soprattutto darà ai discepoli una forza e tanti doni che essi non possedevano.
“Lo Spirito santo vi insegnerà ogni cosa e vi farà ricordare tutto ciò che io vi ho detto”: promessa, questa, che vediamo realizzata nella vita della chiesa e nella nostra vita, nelle nostre storie. Oggi il Vangelo lo comprendiamo più di ieri, più di mille anni fa. Per la salvezza degli uomini e delle donne di ieri era sufficiente quella comprensione, ma per noi oggi è necessaria un’altra comprensione, dovuta al vivere del Vangelo nella storia, perché in essa il Vangelo si dilata e la chiesa lo approfondisce, lo comprende meglio e di più. La fede di Atanasio di Alessandria è ancora la fede della chiesa di oggi, ma molto più approfondita. Il Vangelo letto al concilio di Trento è lo stesso Vangelo letto da noi oggi, ma oggi lo comprendiamo meglio, come diceva papa Giovanni. Siamo nel tempo in cui lo Spirito santo, che è sempre Spirito del Padre, procedendo da lui, ma anche Spirito del Figlio, perché suo “compagno inseparabile”, è presente nelle vie della chiesa e agisce quando essa lo invoca e gli obbedisce.
Così nella chiesa c’è la pace, lo shalom, la vita piena lasciata da Gesù, non la pace mondana, ma una pace sorretta dalla speranza, perché Gesù ha detto ancora: “Me ne vado ma ritornerò a voi!”. “Se n’è andato il nostro pastore”, abbiamo cantato nello straordinario responsorio del sabato santo; ma in questo tempo pasquale che dura fino al giorno del Signore possiamo cantare: “Ecco, ritorna il nostro Pastore”, perché viene a noi ogni giorno in questa discesa del Padre e del Figlio nella forza syn-kata-batica, ac-con-discendente, dello Spirito santo. Viene con la Parola, fedelmente; viene con gli eventi della storia nei quali, al di là delle evidenze, è sempre operante; viene nella nostra carne che fatica e lotta, ma per essere trasfigurata dalla sua gloriosa venuta.
Ma noi amiamo Gesù? Perché, secondo le sue affermazioni ascoltate e interpretate, se non lo amiamo non siamo capaci di restare fedeli alla sua parola. Su questo amore per Gesù dobbiamo dunque interrogarci senza stancarci e anche senza essere certi di cosa significhi tale espressione: amare Gesù come amante o come amato? Amarlo realizzando la sua parola fedelmente? Amare Dio per amare lui o amare lui per amare Dio? È il tormento dell’amore, al quale chi ama non può sfuggire.