Pubblicato su: Vita Pastorale Marzo 2022
di Enzo Bianchi
Per evangelizzare occorre essere prima evangelizzati ed essere plasmati nella vita dal Vangelo
La terza parola-chiave che deve contrassegnare il cammino sinodale, dopo la comunione e la partecipazione, è la missione! Così indicano tutti i documenti preparatori e così afferma con insistenza papa Francesco. Devo confessare, però, che questa parola – da un lato troppo abusata e dall’altro messa e dismessa negli ultimi decenni, sovente sostituita con “evangelizzazione” o “nuova evangelizzazione” soprattutto nella Chiesa italiana – mi appare indispensabile e, nello stesso tempo, troppo ambigua; parola carica di evocazioni, bagagli sovente ingombranti. In nome della “missione” sono veramente tanti gli errori commessi nella storia della Chiesa. Proprio per questa preoccupazione, dovrò fare molte distinzioni, e non permettere che essa risuoni destando diffidenze, incomprensioni e addirittura reazioni di rigetto.
La prima affermazione da porre in modo radicale è che hanno il compito della missione o dell’evangelizzazione soltanto cristiani che sono evangelizzati, che hanno ricevuto il Vangelo di Gesù Cristo fino a essere plasmati nella vita da questa parola viva ed efficace che viene da Dio. Una Chiesa non evangelizzata fa propaganda, può fare anche proselitismo, ma non fa dei discepoli di Gesù. Forse avremmo dovuto interrogarci cogliendo la sollecitazione di Benedetto XVI che si domandava se la stanchezza di tutta una catechesi alla fine del secolo precedente non fosse dovuta a una mancata evangelizzazione proprio in chi evangelizzava o credeva di evangelizzare.
La Chiesa è missionaria perché inviata tra gli uomini, ma inviata per portare la parola di Dio, per annunciare il Vangelo che ha ricevuto, che riceve dal suo Signore e cerca di vivere nella storia. Se i cristiani sono tali, cioè messianici (da Messia-Cristo) allora vivono il Vangelo, hanno i sentimenti e i pensieri di Gesù, e operano secondo il suo stile: e questo è sufficiente per dire che sono in missione! Perché missione non significa proselitismo,non significa proclamare il Vangelo ad alta voce, a ogni costo: è sufficiente incarnarlo! Ognuno offre e dona ciò che ha, ciò che vive, e se questo è fatto naturalmente, “nella dolcezza della fraternità”, nella vita quotidiana dove si vive insieme, questo è sufficiente, è evangelizzazione, è missione!
In tutto il percorso del Sinodo la missione come l’ho delineata deve essere presente, attuata, vissuta. Jean Paul Vesco, arcivescovo di Algeri, ha osato pagine luminose per mettere in guardia chi evangelizza da molte tentazioni di proselitismo, oggi più che mai presenti in modo inedito. Se il cristiano vive la comunione, partecipa alla vita ecclesiale e sta nel mondo senza voler essere tolto dal mondo e senza diventare mondano non deve essere assillato dal “cosa fare per la missione”, perché il suo vivere ha già una ricaduta, che è come una forza, una grazia che si diffonde nel mondo. Non si tratta tanto di “fare”, ma di “stare in mezzo agli altri”, senza difese, senza paure, senza militanze.
Il cardinal Bassetti ha messo in guardia nei confronti di «una Chiesa che si è preoccupata più di dire, parlare, che di ascoltare...», perché spesso i cristiani, con la scusa della missione, sono più preoccupati di parlare, giudicare, senza mai ascoltare coloro ai quali si indirizzano. Una vera evangelizzazione scaturisce dal dialogo, dal confronto sincero, dall’accettazione delle diversità, nell’ascolto soprattutto dei pareri degli ultimi,quelli che sono poco muniti di strumenti di comunicazione, gli scarti della società, gli “invisibili”, i “non ascoltati”, quelli che chiamiamo “peccatori”.
Gesù quando evangelizzava incontrava tutti, non faceva discorsi impositivi, piuttosto poneva domande per ascoltare, sollecitava la fiducia, la libertà, non emetteva giudizi, non ha mai escluso nessuno e non ha mai preteso che si entrasse nel suo gruppo.
Il Sinodo nel suo cammino è sempre in missione e non c’è una fase terza o finale. Nel cammino sinodale a tutti è chiesto di crescere in maturità cristiana, “alla statura di Cristo”, di diventare cristiani adulti (cf Ef 4,13), con una soggettività, responsabili, uomini e donne con una stessa dignità riconosciuta. Sì, a tutti è chiesto di essere più conformi a Cristo, cioè più umani secondo l’Uomo per eccellenza voluto da Dio che è il Figlio, Gesù Cristo!
Il cammino sinodale non è un cammino facile, è a caro prezzo, e richiede a tutti abnegazione, spirito di servizio, volontà di convergenza, esercizio di pazienza e misericordia. Perché non pensiamo quanto sarebbe “missionaria” senza proselitismo la prassi suggerita da papa Francesco, e dal cardinal Mario Grech segretario del Sinodo, di ascoltare anche quegli uomini e quelle donne che stanno sulla soglia o fuori dai cortili ecclesiali? Anche loro hanno “un fiuto” spirituale che li rende capaci di discernere e camminare con noi. Non importa se non sono “dei nostri”; tutti siamo fratelli e sorelle e siamo – lo sappiamo o no – figli di Dio!
Questa non è l’ora dei laici, slogan ripetuto da sessant’anni senza che ne abbiamo visto l’aurora. Questa è l’ora dell’umanità, di “fratelli tutti”, l’ora del riconoscimento universale della dignità di ogni persona e della solidarietà umana. Dunque non diciamo nulla in più sulla missione: se ci sono urgenze nuove le scopriremo cammin facendo, ma per ora non predeterminiamolo.
Invece è bene, ora, accennare a proposte che il cammino sinodale non dovrebbe lasciare inascoltate. Molti attendono dal Sinodo l’apertura di diverse vie. E molti dicono che il Sinodo è una delle ultime occasioni per la Chiesa di rinnovarsi. Se non lo dovesse fare, se non ne scaturisse una “riforma”, la delusione sarebbe tale da segnare il passaggio da una Chiesa in crisi a una Chiesa in agonia. Le autorità ecclesiali, proprio perché chiamate da Francesco a stare in basso, in posizione di piramide rovesciata, al servizio del popolo di Dio che sta in alto, devono sentire il grido di chi anela a una Chiesa diversa non a un’altra Chiesa; una Chiesa nella tradizione cattolica ma obbediente ai segni dei tempi e dei luoghi, una Chiesa umile che si sente nomade, viandante, pellegrina verso il Regno.
Proprio dalla mia presenza nelle Chiese dell’Europa occidentale e in Italia, ascoltando tutte le componenti ecclesiali, penso sinceramente di poter attestare le speranze che ho raccolto e raccolgo. Vorrei enunciarle, accompagnandole con la preghiera allo Spirito affinché le discerna con noi, le decida con noi, le porti a compimento con noi. Purtroppo, in questa sede, posso solo elencarle senza illustrarle, ma ce ne sarà data la possibilità negli interventi successivi a questo.
Mi limito, al momento, alla prima urgenza che è quella dell’inculturazione del Vangelo nelle diverse aree culturali del mondo. Soffriamo ancora di una Chiesa monolitica, centralizzata, e abbiamo bisogno di una Chiesa di chiese, dove ogni Chiesa locale realizzi il Vangelo nella sua storia, nella sua terra, nella sua cultura.
Il sinodo dell’Amazzonia ha sollevato il problema, l’ha posto alla discussione e alla ricerca di tutta la Chiesa, ma in realtà anche le altre Chiese cercano una loro via di incarnazione del Vangelo, di professione dell’unica fede con accenti e linguaggi diversi, chiedono liturgie che siano veramente scaturite dalla cultura e dalla sapienza di cui sono dotate. È questa la sfida più decisiva, la strada più difficile, l’opera più grande ma assolutamente necessaria perché il Vangelo sia incarnato nelle diverse genti che compongono l’umanità.