di Adalberto Mainardi
L’abside della cattedrale di Santa Sofia di Kiev è sovrastata dal monumentale mosaico bizantino della Madre di Dio “Orante”, che intercede per la città e per il mondo. Fondata da Vladimir il Santo nel 1011, Santa Sofia è il simbolo religioso in cui si riconoscono ucraini e russi, ma anche il segno di una cristianità non ancora lacerata dallo scisma del 1054: sotto l’Orante è raffigurata l’eucarestia, sacramento di unità, e nella teoria dei santi accanto ai padri orientali compare Clemente papa di Roma, le cui reliquie sono custodite nella Lavra delle Grotte di Kiev. Mille anni dopo, le chiese in Ucraina si presentano all’appuntamento della storia tragicamente divise. Chi sono e come vedono se stessi i cristiani in Ucraina? Come le chiese hanno risposto al conflitto? Che cosa è cambiato con la guerra?
Il panorama religioso dell’Ucraina contemporanea vede oltre cinquanta religioni ufficialmente registrate. Secondo l’Atlante mondiale (2018), su quasi quaranta milioni di popolazione, circa il 65 per cento si dichiarano ortodossi, il 6,5 greco-cattolici (tra i sei e i dieci milioni, se si calcola la diaspora), l’1,9 per cento protestanti e l’un per cento cattolici latini; oltre il 7 per cento è composto da altri cristiani (battisti, pentecostali, anglicani, vecchi credenti …), l’1,1 da musulmani, e altre minoranze (ebrei 0,2; indù 0,2; altre religioni 0,2); il 16,3 non si riconosce in nessuna appartenenza religiosa.
Chiesa maggioritaria è la Chiesa ortodossa ucraina, canonicamente parte del Patriarcato di Mosca, ma con uno statuto di ampia autonomia accordato nel concilio episcopale del 1990 e confermato dal concilio locale della Chiesa ortodossa russa del 2009 (lo stesso che elesse l’attuale patriarca Kirill). Capo della Chiesa ortodossa ucraina è il metropolita di Kiev, consacrato dal patriarca di Mosca ma eletto dall’episcopato ucraino (l’attuale metropolita Onufrij Berezovskij è stato eletto nel 2014). Nel 1992 si era formata la Chiesa ortodossa ucraina-Patriarcato di Kiev, con un seguito di alcuni milioni di fedeli, non riconosciuta dalle altre chiese ortodosse. Inoltre nel 1990, dopo l’incontro con Giovanni Paolo II, Gorbačev permise la legalizzazione della Chiesa greco-cattolica ucraina, che poté uscire dalla clandestinità cui era stata costretta da Stalin nel 1946. La convivenza delle tre comunità negli anni Novanta fu caratterizzata da tensioni ed episodi di violenza, che si riverberarono sullo stesso dialogo teologico cattolico-ortodosso, con una lunga battuta d’arresto fino al 2006.
Ma è l’autocefalia della Chiesa ucraina il nodo attorno a cui si stringono i problemi dell’ortodossia contemporanea. Nel 2016 il concilio panortodosso di Creta non riusciva ad affrontare il problema di quale chiesa avesse il diritto di concedere a un’altra l’autocefalia (cioè la piena indipendenza): il patriarca ecumenico di Costantinopoli? O la chiesa madre? O l’insieme delle chiese ortodosse? Per motivi diversi, quattro chiese ortodosse disertarono l’assise di Creta: Mosca, Antiochia, la Chiesa ortodossa bulgara e la Chiesa di Georgia. A livello panortodosso, il problema canonico della concessione dell’autocefalia rimase irrisolto e lo scisma della Chiesa ucraina drammaticamente aperto.
Dopo l’annessione russa della Crimea e la destabilizzazione del Donbass nel 2014, la spinta politica a creare una chiesa ucraina autocefala «canonica» crebbe considerevolmente. Fino alla fine del XVII secolo la metropolia di Kiev, culla storica dell’ortodossia russa, dipendeva canonicamente dal patriarca di Costantinopoli. Nel 2018, fallita la mediazione di Creta, il patriarca ecumenico Bartolomeo ritenne di poter revocare il tomos patriarcale del 1686 che concedeva al patriarca di Mosca il privilegio di consacrare il metropolita di Kiev. I fedeli fino ad allora ritenuti scismatici della Chiesa ortodossa ucraina-Patriarcato di Kiev e della minoritaria Chiesa ortodossa autocefala ucraina (nata negli anni ’20) furono accolti nella comunione con Costantinopoli; il 15 dicembre 2018, in un concilio alla presenza di due esarchi nominati dal patriarca ecumenico, i vescovi delle due chiese costituirono la Chiesa ortodossa d’Ucraina.
A questa chiesa, nel gennaio 2019, Bartolomeo concesse l’autocefalia. L’evento fu salutato dall’allora presidente ucraino Petro Poroshenko, che l’aveva fortemente voluto, come un nuovo «battesimo della Rus’», e la nascita di «una Chiesa senza Putin, ma una Chiesa con Dio e con l’Ucraina». Il Patriarcato di Mosca reagì rompendo la comunione eucaristica con Costantinopoli e con le chiese che successivamente riconobbero la Chiesa ortodossa d’Ucraina (la Chiesa greca, il Patriarcato di Alessandria e la Chiesa di Cipro).
La Chiesa ortodossa ucraina, rimasta fedele a Mosca, fu oggetto di attacchi e discriminazioni. Un progetto di legge imponeva di rinominarla «Chiesa ortodossa russa in Ucraina» (una disposizione che avrebbe potuto privarla dell’antichissimo monastero delle Grotte di Kiev). Il capo delle relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, metropolita Ilarion Alfeev, nell’aprile 2021 protestò energicamente: «Il centro di questa Chiesa non è Mosca, ma Kiev: è una Chiesa indipendente, elegge i propri vescovi e il proprio primate. Non è una Chiesa di russi, ma di ucraini».
La guerra di Putin ha agito come detonatore in una situazione ecclesiale attraversata da tensioni irrisolte. Le reazioni delle chiese le hanno rese manifeste. Non sorprendono i toni nazionalisti del primate della Chiesa ortodossa d’Ucraina, metropolita Epifanij («un cinico attacco […] nostro comune compito è respingere il nemico, difendere la patria, il nostro futuro dalla tirannia dell’aggressore»), o dell’Arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina, Svjatoslav Sevchuk («il nemico fraudolento ha invaso il suolo ucraino, portando con sé morte e devastazione […] è sacro dovere di ciascuno difendere la patria […] La vittoria dell’Ucraina sarà la vittoria della potenza di Dio sulla bassezza e l’insolenza dell’uomo»).
Ma se Putin, che ancora il 21 febbraio definiva la Chiesa ortodossa ucraina «perseguitata» dal regime di Kiev, sperava di riceverne l’appoggio, si sbagliava. Il giorno dell’invasione, in un appassionato appello «al presidente della Russia», il metropolita Onufrij chiese di «fermare immediatamente la guerra fratricida […] Una guerra simile non ha giustificazione né per Dio né per l’uomo». Il messaggio di Onufrij individuava chiaramente la responsabilità del presidente russo, ma non cedeva alla tentazione di invocare da Dio la vittoria sul nemico. Non c’è un nemico da distruggere, ma un fratello che non abbiamo il diritto di uccidere.
Le parole di Onufrij resero più imbarazzante il silenzio del patriarca Kirill, che solo la sera del 24 febbraio si rivolse ai «fedeli figli della Chiesa ortodossa russa» senza parlare di guerra («questi eventi», «sventura»), ma esortando «tutte le parti in conflitto a fare il possibile per evitare vittime civili». La cautela di Kirill, del resto, non era un caso isolato. L’Unione dei battisti russi nel suo appello per la pace sostituiva la parola «guerra» con l’espressione «situazione complicata ai confini con l’Ucraina».
La dichiarazione del patriarca dovette sembrare insufficiente al suo stesso clero, se circa trecento preti e monaci in un appello pubblico chiedevano «la cessazione della guerra fratricida in Ucraina», e di non perseguire per legge chi manifesta per la pace, «perché questo è il comandamento divino: “Beati gli operatori di pace”». Il 28 febbraio il sinodo della Chiesa ortodossa ucraina chiedeva con insistenza al patriarca di Mosca di «dire la sua parola di primate sulla cessazione del versamento fratricida di sangue in Ucraina». Il 2 marzo il segretario generale del Consiglio ecumenico delle chiese di Ginevra, Ioan Sauca, ortodosso romeno, rivolse a Kirill la richiesta «di mediare perché la guerra possa essere fermata», e di «far sentire la sua voce per i fratelli e le sorelle che soffrono».
Nell’omelia della Domenica del perdono (6 marzo), che precede l’inizio della Quaresima, il patriarca Kirill diede l’impressione di rispondere a queste sollecitazioni. Dopo aver parlato del «deterioramento della situazione nel Donbass», spiegò che l’ostilità internazionale verso le repubbliche separatiste era dovuta al loro intransigente rifiuto del gay pride, biglietto di ingresso nel felice mondo del consumismo e dell’apparente «libertà» (un’eco del discorso di Ivan Karamazov contro la teodicea della modernità?). La guerra in corso, continuò il patriarca, è una lotta escatologica tra il bene e il male, ne va «della salvezza umana, di dove l’umanità si colloca», tra i sommersi o i salvati, «alla destra o alla sinistra di Dio Salvatore, che viene nel mondo come Giudice e Datore della ricompensa». Non tutti se ne rendono conto, proseguiva. Bisogna chiamare peccato ciò che è peccato. L’omosessualità è un peccato. Negarlo è defraudare Dio del suo ruolo di giudice. Da otto anni, nel silenzio dell’Occidente, è in corso un genocidio nel Donbass (una guerra dimenticata che ha già fatto decine di migliaia di vittime). La sofferenza degli abitanti del Donbass è la sofferenza dei martiri. Si tratta di «una lotta che non ha un significato fisico ma metafisico».
L’omelia del patriarca ha lasciato stupefatti molti commentatori. Mentre chiedeva di pregare per il popolo ortodosso del Donbass, Kirill dimenticava che in Ucraina c’è un altro popolo ortodosso che è il suo stesso gregge; quando ricordava che perdonare è cessare di odiare il nemico, stava costruendo un nemico «esterno» (l’Occidente corrotto) addossandogli la responsabilità «più pesante», cioè di allargare «l’abisso tra i fratelli, colmandolo di odio, malizia e morte» (la guerra tra Russia e Ucraina), ma rimandava assolto il presidente russo.
La parola del patriarca non deve stupire. Non è, banalmente, la degradazione dell’ideale evangelico a poltiglia ideologica. È il coerente sviluppo dell’idea del «Mondo russo» (Russkij mir), costruita dall’inizio degli anni Duemila. Un’idea di civiltà e insieme un’impresa politica, che tiene insieme eredità culturale e valori religiosi, principi etici tradizionali e capacità performativa post-secolare, una versione 2.0 dell’«Idea russa» combinata con l’ideale romantico della «Santa Rus’», di cui sarebbero portatori i popoli usciti dal battesimo nel Dniepr, russi, ucraini, bielorussi. Si tratta di un’unica civiltà con una missione specifica: testimoniare un’alternativa valoriale allo smarrimento etico dell’Occidente, che dietro l’ipocrita difesa dei diritti umani nasconde l’idolo unico del profitto. Non è casuale la consonanza con la persuasione putiniana che russi e ucraini (e bielorussi) siano un unico popolo, fratelli che non possono e non devono abitare in case straniere. Il patriarca del resto aveva salutato con favore gli emendamenti alla Costituzione russa del 2020, che introducevano la menzione di Dio (art. 67,1 comma 2), la difesa del matrimonio come unione tra uomo e donna (72, comma 1), la promozione dei valori tradizionali della famiglia (114, comma 1). Nella sua risposta al segretario del Consiglio ecumenico delle chiese (resa pubblica sul sito del patriarcato l’11 marzo), il patriarca di Mosca ribadiva che i responsabili del «conflitto» non sono «i popoli della Russia e dell’Ucraina, … usciti dall’unico fonte battesimale di Kiev», ma «i paesi del blocco NATO … che hanno per scopo il ridimensionamento della Russia» e hanno reso «nemici i popoli fratelli dei russi e degli ucraini». Paradossalmente, la difesa della civiltà ortodossa russa come idea transnazionale ha trasformato la vocazione universale dell’ortodossia in una religione nazionale.
Il conflitto ucraino sta brutalmente mostrando che il mondo russo non è più armonioso del mondo occidentale. L’unità religiosa non è rafforzata dalle bombe ma polverizzata. Una dichiarazione di 343 autorevoli teologi ortodossi, pubblicata sul sito publicorthodoxy.org, ha bollato «l’ideologia del Mondo russo» come un’«eresia» che «devasta e divide le chiese». Nell’Angelus del 13 marzo, papa Francesco chiede «in nome di Dio» di fermare il massacro in Ucraina, perché «Dio è solo Dio della pace, non è Dio della guerra, e chi appoggia la violenza ne profana il nome». La prudente Dichiarazione comune del 2016 tra il pontefice e il patriarca Kirill all’Avana, che cercava l’equidistanza nello «scontro in Ucraina» e invitava le due chiese «a non sostenere un ulteriore sviluppo del conflitto», è spazzata via. Una recisa condanna della guerra è venuta dal metropolita Tichon, primate della Chiesa ortodossa d’America (di cui Mosca ma non Costantinopoli riconosce l’autocefalia), mentre l’Arcivescovo Jean di Dubna, a capo dell’Arcivescovado delle chiese ortodosse di tradizione russa in Europa occidentale (Patriarcato di Mosca), «con infinito dolore» ha preso le distanze dalla posizione del patriarca. Una quindicina di vescovi della Chiesa ortodossa ucraina hanno cessato di menzionare il nome del patriarca nell’anafora eucaristica.
Il solco scavato dalla guerra tra il patriarca di Mosca e la Chiesa ortodossa ucraina sta però anche segnalando che le ragioni della divisione tra le chiese in Ucraina non sono così profonde. Non toccano l’essenza della fede. Forse la tragedia della guerra può aiutare le chiese a comprendere che il Vangelo esige un parlare chiaro: sì, sì, no, no! Chiede di chiamare la guerra «guerra», il peccato «peccato». Di dire che la guerra è un peccato, che la divisione è un peccato. Che solo l’amore salva. Che l’invocazione della pace deve radicarsi nella verità e nella giustizia, nella promozione della libertà e della vita dell’altro.