di Adalberto Mainardi
«Era la fine di ottobre; alle cinque di mattina faceva ancora freddo ed era buio. Entrò il commissario del carcere, piano, con le guardie, e gli sfiorò con cautela le spalle; quello si alzò, appoggiandosi sui gomiti, vede la luce: “Che cos’è?”. “L’esecuzione è alle dieci”.»
Nei primi capitoli dell’Idiota, il grande romanzo di Dostoevskij del 1868, ritorna ossessivamente il motivo del condannato a morte pochi minuti prima dell’esecuzione. Il tema della morte è il filo rosso che percorre tutto l’intreccio del romanzo. Ritornare oggi a Dostoevskij significa anche ripensare i grandi temi della modernità occidentale (il nichilismo, l’ateismo, la radicalità dell’evento cristiano) con uno sguardo dal di fuori e al tempo stesso dal di dentro.
Uscito per la prima volta in Italia nel 1902, presso i fratelli Treves di Milano in una traduzione anonima, L’idiota conobbe poi innumerevoli traduzioni, da quella classica di Alfredo Polledro per Einaudi del 1941 con prefazione di Leone Ginzburg, a quella più recente annotata e curata da Laura Salmon (BUR 2013), per non parlare delle riduzioni cinematografiche.
Qual è la ragione del fascino irresistibile di questo romanzo inconsueto? Probabilmente proprio la figura singolare, strana, straniante del protagonista, il principe Lev Nikolaevič Myškin. “Idiot” in russo evoca il folle in Cristo, il santo che esce dagli schemi e con la sua sola presenza scardina alla radice convinzioni sociali e religiose consolidate; obbliga a porsi domande scomode, inadatte a ogni risposta. «Dio ama quelli che sono come te», dice Parfen Rogožin a Myškin nel primo capitolo.
Come il suo autore, il protagonista dell’Idiota è malato del male sacro, l’epilessia, cammina sulla linea instabile che separa la santità di Dio e l’assurdità insensata del vuoto. Estraneo alla mondanità, Myškin non conosce il male, ma il male s’incarica di fargli visita e risucchiarlo nel suo vortice. L’azione del romanzo si attorciglia sull’abisso che trae a sé i personaggi. Eppure l’intenzione di Dostoevskij, scrivendo il romanzo, era «di rappresentare una natura umana pienamente bella … Al mondo c’è stata soltanto una apparizione … di un personaggio smisuratamente, incommensurabilmente bello: Cristo». La sua apparizione, spiega lo scrittore in una lettera del gennaio 1868, «costituisce naturalmente un miracolo senza fine». «Il principe è Cristo», aveva annotato nei brogliacci. Nell’Idiota viene rivolta al protagonista una domanda cui il romanzo non risponde: «È vero, principe, che avete detto che la bellezza salverà il mondo?». La risposta manca perché tutto il romanzo è un grido soffocato, un’invocazione di salvezza che attende l’esaudimento. L’unico uomo perfettamente bello apparso nella storia, il Cristo, nel romanzo tace. Appare con il volto sfigurato della croce.
I mesi della stesura dell’Idiota sono tra i più tragici della vita dello scrittore. Da poco sposato con Anna Grigor’evna Snitkina, Dostoevskij ripara all’estero per sfuggire ai creditori e dilapida al gioco il patrimonio della moglie. In Svizzera muore a pochi mesi la figlioletta Son’ja. Nel 1867 Dostoevksij vede nel museo di Basilea la deposizione di Hans Holbein, «una tela raffigurante il Cristo dopo il martirio inumano, già staccato dalla croce e in via di decomposizione». «La vista di quel viso tumefatto pieno di ferite sanguinanti», scrive la moglie nelle memorie, «fece una grande impressione su Fëdor Michailovič», che le dice: «Davanti a questo quadro si può perdere la fede».
I quadri, le immagini, gli occhi, i presentimenti si accumulano nell’Idiota accanto al dipanarsi degli eventi. L’intreccio romanzesco è costruito, come in un gioco di specchi, sulla distanza tra l’immagine e la realtà: «E se essa fosse anche buona?», si chiede il principe contemplando il ritratto della bellissima Nastasia Filippovna, la donna fatale del romanzo. «Se fosse anche buona, tutto sarebbe salvato». Bellezza e salvezza si guardano. La tragica dissociazione tra il bello, il vero e il buono perimetra la condizione dell’uomo moderno.
La prima conversazione del protagonista nel salotto della generalessa Epančina con le figlie Alessandra, Adelaida e Aglaia, verte contro ogni etichetta sugli ultimi momenti di un condannato alla ghigliottina. Adelaida aveva chiesto all’ospite inatteso il soggetto per un quadro. Il principe le propone la decollazione del Battista, che aveva visto a Dresda. Suggerisce che il quadro dovrebbe restituire l’espressione dei presenti e quella del capo ormai distaccato dal corpo. Poi racconta di un uomo cui era stata letta la sentenza capitale, per motivi politici, ma dopo venti minuti gli fu letta anche la grazia. «Chi ha detto che la natura umana è in grado di sopportare questo senza impazzire? Perché quest’empietà, quest’orrenda, inutile assurdità? Forse c’è un uomo cui è stata letta la condanna, gli si è dato il tempo di torturarsi, e poi gli si dice: “Vattene, sei graziato”. Ecco, quest’uomo, forse, potrebbe raccontarlo. Di questa tortura e di questo terrore anche Cristo ha parlato».
Quest’uomo era lo stesso Dostoevskij. All’alba del 22 dicembre 1849, sulla piazza Semenovskaja a San Pietroburgo stanno circa una ventina di persone, tutti giovani, dinanzi al plotone di esecuzione. Tra di loro c’è anche il ventottenne Fedor Michailovič Dostoevskij, condannato per la sua partecipazione al circolo rivoluzionario di Petraševskij. Lo scrittore fa a tempo a sussurrare a Nikolaj Aleksandrovič Spešnev (l’archetipo di Stavrogin nei Demonî): “Nous serons avec le Christ!!?” (saremo con il Cristo?); la risposta è senza speranza: “Un peu de poussière” (un po’ di polvere…).
Al centro dell’Idiota sta la deposizione di Holbein. «Nel quadro il viso era orrendamente sfigurato dai colpi, con tremendi lividi sanguinolenti e gonfi, occhi dilatati, pupille stravolte; il bianco degli occhi, vasto, scoperto, luceva in un certo riflesso vitreo, cadaverico…».
Dostoevskij mette il Credo della chiesa nella tenaglia di un dilemma, di cui l’Idiota presenta un corno (l’altro è la sofferenza degli innocenti che tormenta Ivan Karamazov): se Cristo è Dio, non può aver così tanto sofferto; e se non ha sofferto non è disceso nell’inferno delle sofferenze del mondo; ma se ha veramente così tanto sofferto, la sua morte è la morte di ogni speranza, perché non conosce resurrezione. «Mentre guardi quel corpo di uomo straziato, ti sorge in mente un singolare e curioso quesito. Se tutti i suoi discepoli, i suoi futuri apostoli, le donne che Lo seguivano e che stavano presso la croce, e tutti quelli che in lui credevano e lo adoravano, videro realmente un cadavere in quelle condizioni (e doveva certo essere in quelle precise condizioni), come poterono mai credere, contemplandolo, che quel martire sarebbe risorto?
Involontariamente vien fatto di pensare: se la morte è così orrenda, e se le leggi della natura sono così forti, come fare a vincerle? Come vincerle, se non ne trionfò nemmeno Colui che in vita sua trionfava anche della natura, Colui che ordinò. “Talità cumi!”, e la fanciulla si levò, “Lazzaro, esci fuori!” e il morto uscì fuori?».
Anche Nastasija Filippovna “scrive” un quadro. Un soggetto che «non si trova nelle narrazioni evangeliche»: Cristo solo, al tramonto, i suoi occhi si perdono all’orizzonte, mentre accarezza un fanciullo che lo fissa pensoso, «come fanno talvolta i bambini». Nel suo sguardo «riposa un pensiero grande, come il mondo intero … Ecco questo è il mio quadro». Il Cristo attende la salvezza dalle profondità della morte; dal luogo dell’assenza di Dio attende la risposta del Padre. Ma nell’Idiota questa risposta non risuona (solo nei Fratelli Karamazov si leverà l’inno della Resurrezione).
La grandiosa scena finale, in un’inclusione di tutto il romanzo, riunisce i protagonisti in uno sviluppo figurativo generato dal Cristo morto di Holbein: un gruppo scultoreo della Pietà che evoca le deposizioni lignee del tardo gotico tedesco, con le lacrime dell’uno che si confondono con quelle dell’altro. L’epilogo genera una fortissima impressione sul lettore, costretto a chiedersi da dove venga quel senso infinito di pietà, di catarsi dalla potenza infernale che ha consumato il destino di tutti i personaggi. Il principe, ritornato definitivamente “idiota”, viene riportato in quella Svizzera da dove era venuto, che da Eden senza peccato si trasforma in un limbo senza paradiso. Sono le ultime paradossali battute: «E tutto questo estero, e tutta questa vostra Europa, non è altro che un fantasma, e noi tutti, all’estero, soltanto un fantasma…».
Ma il passaggio dell’uomo perfettamente bello ha ridestato nel cuore di chi lo ha incontrato la nostalgia della felicità perfetta, la potenza dell’amore fino all’estremo:
― Sentite! Io so che non va bene parlare: è meglio semplicemente un esempio, meglio semplicemente incominciare … io ho già iniziato … Sapete, io non capisco come si possa passare accanto a un albero e non essere felici di vederlo? Parlare con una persona e non essere felice di amarla! O, se solo sapessi esprimerlo… ma a ogni passo quante cose sono così belle, che persino l’uomo più perduto le considererebbe bellissime? Guardate un bambino, guardate all’alba di Dio, guardate all’erbetta che cresce, guardate gli occhi che vi guardano e vi amano …