di Jean-Paul Vesco
Come articolare paternità e fraternità spirituale? Jean-Paul Vesco, domenicano, arcivescovo di Algeri, ci spiega come la spiritualità religiosa ha dato forma alla sua visione delle cose.
La spiritualità della vita religiosa insegna ad essere fratelli prima di essere preti. Per quanto mi riguarda, questa spiritualità mi ha strutturato in profondità, anche se comprendo che la spiritualità dei seminari diocesani insiste maggiormente sulla nozione di “paternità”. In parte ciò è forse dovuto al fatto che il presbiterato è direttamente assimilato all’incarico parrocchiale: il parroco si vede affidare un popolo di cui può considerarsi il padre.
Concepimento reciproco
Nella paternità spirituale, ritengo ci possa essere il rischio di devianza verso una relazione simbolica falsata perché troppo lontana dal reale della relazione di paternità. Porsi come padre può favorire l’illusione che noi, preti, non abbiamo bisogno di nessuno, che siamo noi la sorgente del concepimento derivante dalla relazione di paternità spirituale.
Al contrario, la nozione di fraternità spirituale fa spazio alla possibilità di prendere in considerazione una salutare e reale reciprocità, un concepimento reciproco che fa vivere anche noi!
Occorre non perdere di vista il ritmo naturale della paternità (o maternità) biologica. Infatti, la relazione di paternità evolve nel corso della vita: nei primi mesi, i genitori sono destabilizzati di fronte all’intrusione del loro neonato, che sconvolge tutti i punti di riferimento; viene poi il periodo dell’educazione in cui i genitori diventano un modello con cui il bambino si confronta e rispetto a cui si costruisce; poi viene un momento in cui si crea un’alterità, perché i figli sono diventati adulti; infine arriva il tempo in cui sono i figli a prendersi cura dei genitori.
Questo processo umano può facilmente essere occultato nella paternità spirituale, spesso bloccata nel periodo della relazione di educazione genitore-figlio. Solo il patriarca conserva la sua piena autorità fin sul letto di morte, non il padre. Il rischio è che la paternità spirituale, bella in sé, si trasformi in paternità patriarcale molto più “rinchiudente”. Allora la relazione è minacciata da una infantilizzazione a vita.
Una forma di alterità
Il modello di fraternità spirituale mi sembra più “vero”, nella misura in cui corrisponde maggiormente alla realtà esistenziale della fraternità umana. In un rapporto tra fratelli, si tiene conto di diverse posizioni. Il fratello maggiore e il fratello minore hanno un ruolo l’uno per l’altro, che può evolvere nel corso del tempo e delle circostanze. Nella fraternità si vive anche una forma di alterità che nella paternità si trova meno, perché noi siamo sorelle e fratelli da uno stesso Padre.
L’autorità di un fratello non è normalmente dello stesso ordine di quella di un padre. Non si è debitori nei confronti del proprio fratello o della propria sorella, se non nel riconoscere ciò che questi ha potuto essere per noi, semplicemente perché era lui, perché era lei. Non è a loro che si deve la vita, ed è una grande differenza.
Come vescovo, vorrei essere un fratello, sia nei confronti di preti o di suore più anziani di me, come anche di studenti. Con i primi mi è difficile considerarmi padre, mentre mi verrebbe facile con gli studenti. Tuttavia, anche nei confronti dei primi, mi sono accorto che, quando riesco a presentarmi come loro fratello nel concreto della vita, questo suscita relazioni umanamente e spiritualmente altrettanto forti, e forse anche più forti, che non quando loro mi identificano con un padre, spesso in maniera un po’ meccanica, per il solo fatto del mio ruolo istituzionale.
Chiamato ad essere fratello
Ciò detto, naturalmente riconosco la realtà e la forza della paternità spirituale. Semplicemente, essa non si decreta e quindi non si istituzionalizza. È il mio modo di intendere la raccomandazione di Gesù di non chiamare nessuno “padre”. Non si diventa padre di tutti a 25 anni, per il solo fatto di essere ordinati preti. È la ragione per la quale, nella necessaria articolazione tra fraternità e paternità, la fraternità è al primo posto.
Io mi sento profondamente e innanzitutto chiamato ad essere fratello, talvolta fratello maggiore. Può capitare che tale relazione diventi con una persona o un’altra un’occasione di concepimento, segno di una relazione reale di paternità spirituale. A titolo personale, non ho padre spirituale, ma fratelli e sorelle con i quali cammino in una relazione di alterità e di reciprocità. Tra di loro, qualche fratello o sorella è stato per me una figura di paternità o di maternità spirituale in un determinato momento della mia vita. Potrei dire chi sono.
Certo, questa relazione tra fraternità e paternità spirituale è sottile. In quanto vescovo, ho l’impressione di avere con i preti della mia diocesi una relazione fraterna, ma con un “qualcosa” di diverso rispetto a quando ero prete tra loro, o anche vicario generale.
Un anno fa mi sono occupato di un prete anziano e amato, deceduto di Covid-19. Con altri membri della diocesi l’ho accompagnato fino all’ultimo respiro. Quando andavo a trovarlo all’ospedale, mi prendevo cura del suo corpo e gli davo da mangiare, avevo la sensazione di fare ciò che avevo sempre temuto di dover fare un giorno con mio padre, cosa di cui pensava di non essere capace. Il mio modo di essere fratello per quel prete, era di comportarmi con lui come un figlio si comporta con suo padre, non come un padre con suo figlio, con tutta l’autorità che può avere un figlio nei confronti di suo padre alla fine della vita di quest’ultimo.
Principio di unità
Ma il fatto che io fossi il suo vescovo, anche se ero suo fratello, faceva sì che ci fosse quel “qualcosa” in più di cui eravamo entrambi consapevoli senza aver bisogno di esprimerlo con delle parole. Che cos’era? Non saprei dirlo. La finezza di tale relazioni non è resa totalmente dalla paternità spirituale per cui il vescovo è padre dei “suoi” preti o il prete è il padre dei laici che gli sono affidati.
Il mio ruolo di vescovo, come aspiro a viverlo, è essere quel fratello che assume un principio di unità, che sa incoraggiare ciascuno nel modo in cui lo Spirito si esprime attraverso di lui. Il mio modello di Chiesa è quello, sinodale, come è descritto nella prima lettera di Paolo ai Corinzi, in cui ciascuno ha dei doni ed è tenuto ad esprimerli, come il corpo umano è composto da un insieme di organi, tutti necessari, tutti interdipendenti gli uni dagli altri.
Anche se evidentemente il principio della sinodalità necessita che il cammino si faccia “con Pietro” e “sotto Pietro”, perché la Chiesa non è una democrazia nel senso in cui si intende abitualmente. Ma bisogna poter sentire tutte le voci. La sinodalità si situa in questa tensione tra l’orizzontalità della fraternità e la verticalità del principio di unità. Non l’uno senza l’altro.