Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Ritorno alla comunità

28/07/2022 01:00

Giannino Piana

Testi di Amici 2022,

Ritorno alla comunità

di Giannino Piana

di Giannino Piana

Fernard Tonnies nel suo testo classico Comunità e società (ed. Comunità) distingue due tipologie diverse di organizzazione sociale che egli ritiene tra loro contrapposte: la comunità (Gemeinschaft) e la società (Geselschaft). La prima appartiene a un contesto sociale chiuso e statico ed è fondata sul sentimento di appartenenza e sulla partecipazione spontanea delle persone; la seconda è propria della moderna società industriale ed è caratterizzata dalla razionalità e dallo scambio di equivalenti.

 

Nel caso della comunità i legami che uniscono le persone sono naturali ed immediati; in quello della società la originaria separazione tra i soggetti è colmata in maniera estrinseca dalla presenza di fattori strutturali destinati a vincere le conflittualità mediante la produzione di regole adeguate e a farli convergere verso obiettivi comuni.

 

La riflessione di Tonnies sui due modi di strutturare la vita associata conserva ancor oggi piena attualità, e purtroppo la contrapposizione da lui prevista si è puntualmente verificata (anzi si è accentuata), dando carattere di assolutezza al sistema societario e incorrendo – è la critica che lo stesso Tonnies muove – in una forma di esasperato contrattualismo e di pericoloso soggettivismo.

 

Ora, che l’assetto societario abbia la prevalenza è un dato indubitabile e insuperabile stante i profondi mutamenti strutturali intervenuti a seguito degli sviluppi della tecnologia attuale; ma questo non esclude (e non può escludere) – in ciò dissentiamo dalla radicalità delle posizioni del sociologo e filosofo tedesco – che si possano ricuperare elementi comunitari anche all’interno della società odierna, e che questo ricupero costituisca un fattore di grande arricchimento per gli sviluppi della vita associata.

 

Gli ostacoli da affrontare

 

A dare un assenso concreto a tale possibilità è il magistero sociale di papa Francesco, che introduce nell’enciclica Fratelli tutti, come paradigmi ai quali riferirsi per costruire le relazioni sociali: la fraternità universale e l’amicizia sociale. Mentre la prima – la fraternità universale – che nasce dalla comunanza di natura e trova per chi crede la sua ultima ragione nell’essere figli dell’unico Padre e fratelli in Cristo, ci unisce all’intera umanità e ci rende responsabili del destino di tutti gli uomini; la seconda – l’amicizia sociale, – che ha come referenti le persone con cui si entra direttamente in contatto e con le quali si sviluppano relazioni immediate nei vari ambiti della vita associata, ha come obiettivo l’umanizzazione delle relazioni sociali.

 

E’ come dire – e papa Francesco lo mette bene in luce – che a dare contenuto umanizzante alle relazioni sociali è una forma di amicizia la quale conferisce allo strutturarsi della società un’anima comunitaria, che la fa uscire da una condizione di anonimato e di burocratizzazione e conferisce alle relazioni i connotati della prossimità, provocando un vero coinvolgimento personale. Non è questa l’idea di fondo che sta alla radice della “teologia del popolo” alla quale il pontefice ispira il proprio insegnamento dottrinale e la propria condotta pastorale? Il popolo a cui si fa qui riferimento non è una massa anonima e omologata; è costituito da persone che interagiscono tra loro in modo positivo con le loro differenze culturali le quali, se correttamente affrontate, favoriscono un arricchimento reciproco.

 

L’attuazione di questa proposta che personalizza le relazioni sociali, creando dal basso un tessuto che anima dal di dentro la vita della società, la quale, a sua volta, si regge su dinamiche strutturali e istituzionali da cui non è possibile prescindere, deve fare i conti con una serie di ostacoli che creano forti resistenze e che vanno decisamente contrastate. Si va dall’allargamento dell’area sociale, con interscambi sempre più frequenti che non consentono veri approfondimenti, alla prevalenza del

“virtuale” sulla realtà – con il venir meno delle coordinate spaziali e temporali (le relazioni si sviluppano in uno spazio illimitato e in tempo reale, con la conseguenza di un de-situazionamento che provoca anonimato) – ; dall’avanzare, in termini sempre più consistenti, del fenomeno dell’emigrazione, con la difficoltà al confronto, in tempi brevi, con tradizioni culturali e religiose che si scontrano con le costanti della cultura occidentale, alla perdita della coscienza storica, e dunque dei riferimenti stabili ereditati dal passato e al conseguente svuotamento dei valori con l’impossibilità di elaborare progetti per il futuro (Fratelli tutti, n. 13-15); fino – ed è questo forse il fattore più importante – all’affermarsi di una “cultura della soggettività” che nasce da una visione individualistica e privatistica della vita con un’adesione incondizionata alla logica del desiderio.

 

Per uscire dall’attuale impasse

 

Di fronte a questa situazione che fare? Come reagire a processi strutturali e culturali che appaiono invincibili? E’ evidente la necessità di un radicale cambiamento di mentalità, di una vera e propria metanoia, che si traduca in un nuovo modo di vivere improntato alla riscoperta del legame che abbiamo con gli altri. Si tratta – come ancora ci ricorda papa Francesco – di abbandonare le false sicurezze che “restringono l’orizzonte per aprirsi ai grandi ideali che rendono la vita più bella e più dignitosa” (Fratelli tutti, n. 55). “Prossimità” e “solidarietà” nel rispetto delle differenze devono assumere i connotati di una forma di responsabilità in esercizio.

 

In questo contesto e con questi assunti valoriali è necessario affrontare anche la questione dei migranti. L’atteggiamento di fondo deve essere l’accoglienza, mettendo in atto processi e modalità concrete di integrazione, la quale presuppone il rispetto delle regole della nostra società, e dando vita a forme di interazione tra i nostri modelli culturali e quelli delle popolazioni che occupano sempre più massicciamente il nostro territorio.

 

La possibilità che questo avvenga è strettamente legata al ricupero del valore dell’alterità. Il pensiero filosofico occidentale della modernità è, a tale proposito, carente di prospettiva: il principio attorno a cui esso ruota è l’io, la sua realizzazione personale, e l’altro è considerato come del tutto esterno (perciò estraneo), anzi persino nemico, in quanto limitante la libertà del singolo. A diventare necessario è dunque un vero e proprio ribaltamento di posizioni, cioè – come ci ha insegnato Emmanuel Levinas – l’assegnazione del primato all’altro che ci interpella a partire la

propria indigenza e sollecita la nostra responsabilità a prescindere da qualsiasi attesa di contropartita, con il superamento perciò anche del modello della reciprocità e la sua sostituzione con quello della gratuità e del dono.

 

Alla radice di questa visione, che assume in Levinas connotati radicali, vi è il passaggio dall’individuo alla persona, la quale è, nello stesso tempo, realtà unica e irripetibile e soggetto relazionale (di e in relazione). La relazionalità, lungi dall’essere in questo caso qualcosa di sopraggiunto e di accidentale, appartiene in maniera costitutiva all’essenza del soggetto, come ci ricordano alcune correnti filosofiche contemporanee: dalla fenomenologia all’esistenzialismo, dal personalismo al pensiero ebraico. Questo confluisce poi in una visione dell’agire umano nella quale il criterio di giudizio e il principio di azione è la carità. In tal senso – come suggerisce la Fratelli tutti – fraternità universale e amicizia sociale risultano come due poli dialetticamente compresenti, che rinviano alle due dimensioni dell’amore come fattori co-necessari, dai quali scaturiscono profondità ed estensione, intensità e universalità.

 

La ricaduta politica

 

Ma le scelte personali non bastano. Il nodo intricato da sciogliere è il passaggio alla politica con le molte limitazioni indotte dall’attuale contesto sociale, ma anche legate ad aspetti strutturali di sempre non facilmente superabili. A tale proposito Roberto Esposito in due saggi successivi – Communitas. Origine e destino della comunità (Einaudi 1988) e Immunitas. Protezione nella vita (Einaudi 2002) – mette bene a fuoco possibilità e limiti, chiamando in causa i due concetti di communitas e di immunitas. Il primo è l’orizzonte relazionale in cui ci si scambia il munus (dono) senza alcun radicamento identitario – nulla a che fare dunque, va detto con chiarezza, con la concezione chiusa e difensiva dei comunitaristi e dei sovranisti di oggi – ; il secondo implica l’esenzione dall’obbligo e dal dono e tende a porre, di conseguenza un freno alla indiscriminata apertura che rischia di rivelarsi insostenibile.

 

Commentando i due testi di Esposito e mettendone a fuoco il necessario rapporto dialettico, Pietro Del Soldà in un recente articolo apparso su Il Sole 24 Ore, scrive: “Non c’è comunità senza un sistema immunitario che ne tuteli l’integrità, e tuttavia troppa immunità (una eccessiva “assenza di doni”, cioè la totale chiusura all’esterno) soffoca la comunità indebolendola all’interno, proprio come una sindrome autonoma” (Non c’è immunità senza comunità, 20 marzo 2022, p. X). La conciliazione dei due poli in tensione consente dunque di trovare il senso più profondo della vita comunitaria, la cui importanza si è rivelata più necessaria e più urgente in seguito alla recente pandemia la quale ha reso evidente la presenza di un destino comune (“nessuno si salva da solo”) e l’esigenza di essere di conseguenza vigilanti nei confronti di quei dispositivi immunitari, che, provocando pesanti chiusure verso l’esterno, sono la causa principale delle odierne diseguaglianze economiche e della tensione, apparentemente ineliminabile, tra libertà e eguaglianza.