Aver fiducia è anche mettere fiducia negli sconosciuti, negli stranieri che lavorano da noi
La Repubblica - 22 Agosto 2022
di Enzo Bianchi
Sono passati più di dieci anni da quando pubblicai il libro Fede e fiducia, mosso dalla constatazione che ciò che era primario nella crisi che attraversava l’occidente era la mancanza di fiducia nell’umanità, nella vita, nel futuro, addirittura nelle storie d’amore. Ero e sono convinto che alla radice di tante patologie che caratterizzano la nostra esistenza ci sia proprio l’assenza, o per lo meno la debolezza, di fiducia.
Aver fiducia nella nostra cultura occidentale giudaico-cristiana significa aderire per non essere scossi, mettere il piede al sicuro restando saldi. La parola Amen, ripetuta a più riprese dai credenti in preghiera, esprime bene questa “adesione a…”, questo restare attaccati, saldamente in contatto con qualcuno. D’altronde nella tradizione cristiana il “credere in…”, credere in un dogma o in una formulazione della fede, è venuto dopo ed è stato meno determinante. Dunque si dice, si proclama, si confessa di credere per esprimere la fiducia, la volontà restare saldi e aderire a un vissuto affidabile che merita di essere creduto.
Ho anche sempre fatto notare che sarebbe ridicolo che questa mancanza di fiducia così attestata nella società non fosse accompagnata da una, anzi dalla mancanza di fede-fiducia anche in Dio. Come sarebbe possibile credere a un Dio che non si vede e che nessuno ha mai visto e non credere a un fratello che si vede, si ascolta, con il quale si cammina come compagni di viaggio verso la fine? Se viene a mancare la fede-fiducia come atteggiamento umano questo non consente neanche alla fede dono di Dio (virtù teologale) di innestarsi nell’uomo e crescere. Lo si dimentica facilmente, ma senza possedere fede-fiducia in questo mondo diventa debole fino a scomparire la fede in un altro mondo dopo la morte.
E poi credere non è un traguardo definitivamente raggiunto, la fede non viene assunta una volta per tutte: nel cammino della fede ci sono dubbi, momenti di nebbia e di oscurità, retrocessioni a situazioni di fede immatura, e a volte, raramente, squarci di luce…
Non è neppure sicura fede proclamare: “Ciò che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso”, perché noi siamo anche capaci di plasmare un’immagine di Cristo secondo i nostri desideri. La fede è sì adesione e abbandono, ma generati da un’obbedienza al Vangelo e al primato della Parola di Dio, altrimenti può anche essere idolatrica, perché “ciò che ci è più caro” è proprio il nostro manufatto!
Chi ha voluto utilizzare nella campagna elettorale lo slogan: “Credo!”, certamente ha compreso che la nostra società ha urgenza di riappropriarsi della fede-fiducia, e perciò ha deciso di sfruttare l’occasione e la forza di tale parola evocativa per tante persone.
Aver fiducia è invece credere al prossimo, andare verso il futuro con speranza, infondere nelle nuove generazioni la gioia di vivere, mettere fiducia negli sconosciuti, negli stranieri che lavorano da noi, non attivare pregiudizi ma collaborare tutti per una terra abitata da tutti senza esclusioni.
Può dire “Credo” solo chi è affidabile, solo chi mostra di meritare la fiducia da parte degli altri. Non basta urlare “Credo”. Credere è sempre fare fiducia a tutti senza barriere e senza orgoglio, altrimenti il posto di questo verbo è soltanto nell’imperativo della Statuto fascista “credere, obbedire, combattere”.