di Mario Giro*
Avanza del nostro mondo contemporaneo «un terribile amore per la guerra», per utilizzare il titolo del saggio di James Hillman.
Taiwan, Bosnia, Kosovo, Caucaso, Siria, Medio Oriente, Gaza, Kurdistan, Yemen… tutti i conflitti si riaccendono uno dopo l’altro, anche quelli spenti da decenni, quasi sempre per “futili motivi” come le targhe automobilistiche a Mitroviça.
Il viaggio della speaker del Congresso Nancy Pelosi a Taipei ha sollevato una ridda di reazioni, determinato la collera dei cinesi che hanno messo mano a missili, caccia e incrociatori con il rischio di rasentare l’incidente fatale.
Anche Corea del Sud e Giappone – alleati di ferro degli Stati Uniti – non hanno nascosto la loro irritazione per l’inutile provocazione.
La guerra in Ucraina, coi suoi rischi nucleari, ha contagiato il mondo, ad iniziare da buona parte del nostro establishment mediatico che non perde occasione per incitare alla guerra quasi fosse l’unica e più giusta soluzione.
Nelle analisi e negli editoriali l’improvvisazione regna sovrana: prova ne sia l’eccitazione dei ragionamenti e la rabbia che traspare ogni qualvolta qualcuno si oppone. Invece di dibattere si biasima, si accusa, si denuncia per tradimento.
Dal mito a oggi
Per comprendere tanto improvviso amore per la guerra sembra che ci si debba rivolgere ai miti antichi: l’uomo che cede ad essi si fa prendere dal suo fondo pagano.
La questione è se la guerra sia radicata nella cultura umana e/o necessaria alla società.
Senza giungere al manifesto futurista di Marinetti («noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna»), pare proprio di essere di fronte alla rimozione della coscienza pacificatrice nata dopo la seconda guerra mondiale, in favore di un’idea in cui la guerra torna a essere la triste compagna della storia umana e un destino ineluttabile o irreversibile.
La guerra diviene così, come diceva René Girard, quell’emozione che unifica una società e costruisce l’unanimità nella violenza. L’atto fondante della violenza fabbrica il consenso: patriottismo esasperato, nazionalismo dell’odio per le patrie altrui (fossero etniche, religiose o culturali), guerra preventiva e così via.
Non esiste guerra santa
Come ben sa chi la guerra l’ha fatta, quando scoppia un conflitto tutti vengono presi da stress da combattimento che poi si trasforma in stress post traumatico: non si ragiona più lucidamente.
Chi si fa ghermire da tale abbaglio pensa che non esista una soluzione pratica alla guerra, perché la considera come la verità archetipica dell’uomo.
L’inumano si mette al posto dell’uomo, si traveste da umano. L’amore per la guerra avanza sempre mimetizzato (da amore per sé, vittimismo, rancore, nostalgia ecc.): va smascherato il prima possibile per svelarne l’impostura.
Non esiste guerra santa o giusta: solo la pace è santa e giusta.
* www.editorialedomani.it