di Angelo Casati
Il mio sarà un racimolare qualche pensiero, non sono un teologo di professione, sono semplicemente un prete, che viene dalla cura pastorale, non dalle cattedre universitarie. Il mio è un andare rapsodico, vado per scuciture.
Un prete che di anni ne ha una moltitudine, novanta, ma, come molte donne e uomini di oggi, ancora innamorato di Gesù.
Alla domanda: «Voi chi dite che io sia?» – posta subito dopo un’indagine veloce sull’opinione della gente – Pietro rispose: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Su di una cosa Matteo, Marco e Luca concordano: sull’apparente strana reazione di Gesù che li invita al silenzio: «Non ditelo a nessuno». Unanimi i biblisti a dare alle parole di Gesù il nome di «segreto messianico». Come se la parola di Pietro, che poteva suonare definizione, dovesse essere protetta, difesa, da equivoci e tradimenti.
Anche dei discepoli, anche dei discepoli di oggi. Vado oltre osando. Mi sono chiesto se non è forse vero che ogni definizione si presta ad equivoci. Definire è parola che contiene nel suo etimo il sospetto della fine. Gesù zittisce e si mette a raccontare.
Racconta, in anticipo di giorni, l’ultimo tratto del suo cammino. Come se in tutta la vita, ma in modo particolare in quegli ultimi passi, fosse custodito il suo segreto.
il vangelo non è uno scorrere di definizioni ma un accadere di incontri
Non puoi se non violandolo confinare in una definizione un viso, un segreto. Gesù è incontenibile.
Il suo pozzo conoscerà sempre il nuovo dell’acqua.
Dal definire al raccontare. Il vangelo non è uno scorrere di definizioni. È un accadere di incontri.
L’incontro nasce da un desiderio. E l’incontro sarà vero finché vi arderà come brace un desiderio, finché lascerà spazio alla sete del pozzo. Penso che fra noi e Gesù accada ciò che accade nella verità delle nostre relazioni umane, del nostro innamorarci. Non hai mai finito di scoprire: «Tu non hai un solo nome per me».
Vengo da letture del Cantico dei cantici, dove mi sorprendo a questo gioco inesausto dei nomi. Dai all’amato un nome, ma poi ti sembra povero, ne trovi un altro, poi un altro ancora, in un gioco inesauribile, incontenibile. Forse la morte della relazione è quando l’altro è catturato, o lo si pensa catturato, in un solo nome, nel nome che noi gli abbiamo dato. Può accadere con Gesù.
«Mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce». C’è un viso più nascosto dell’altro, c’è una voce più segreta che ancora non conosciamo, c’è una lingua da imparare. Mostrami il tuo viso. Fammi sentire la tua voce. Noi a volte presumiamo con disinvoltura di conoscere viso e voce. Voce e viso sono da sorprendere, forse anche attraverso i silenzi, voce e viso che non avremo mai finito di cogliere nella pienezza, non ne siamo proprietari. E c’è anche una distanza da custodire. «Mi spia attraverso le inferriate»: distanza e congiungimento paradossalmente insieme. Ingresso e nello stesso tempo soglia a cui sostare.
Come davanti a un mistero. Quello del volto dell’altro. Quello del volto di Gesù.
seguire il rumore dei passi
E come in ogni relazione che sia vera, seguire il rumore dei passi. Incuriositi come lo furono agli inizi quei due lontani discepoli, che se lo videro indicare dal loro Maestro, Giovanni il battezzatore.
E cominciò tutto da lì. Gli chiesero: «Dove abiti? ». Quando leggo il vangelo sento il rumore dei passi, sono leggeri, senza fanfare, senza esibizioni, senza autocelebrazioni che ne rompano l’incanto. L’incanto della realtà, la realtà della sua persona, di cui abbiamo velato troppo a lungo la bellezza, appesantendo di incrostazioni l’affresco.
Il rumore dei passi all’inizio portò a una casa: «Dove abiti?». «Venite e vedrete». I due iniziatori del movimento si videro aprire una casa. Lui non abitava sinagoghe, né abitava palazzi. Entrarono, erano tutt’occhi per vedere, erano le quattro del pomeriggio: quella luce sul suo viso e sulle cose di casa sarebbe rimasta impigliata per sempre nel più profondo dei loro occhi.
Uno, chi è, lo conosci nella sua casa, molto più che nei luoghi cosiddetti sacri. Così Gesù, lo conosciamo nel vangelo che è la sua casa. La casa è più umana: nella casa si può smarrire una moneta e passare ore a cercarla e chiamare le donne del vicinato a far festa quando, dopo tanto frugare, è uscita dalla penombra agli occhi. Nella casa succedono gli inciampi, succedono anche le nostre fragilità, le nostre debolezze, succede di smarrire una moneta.
Nelle chiese no, tutto procede senza scarti, dall’inizio alla fine, tutto deve filar liscio, roba da mostri sacri. Lui lontano anni luce dal posare come un mostro sacro.
«Andarono» è scritto nei vangeli «e videro». Semplice. Non ci sono le nostre complicazioni, niente di organizzato, non ci sono proclamazioni, non ci sono parole, strategie: «andarono e videro». E non è detto neanche che cosa videro. Provate a rileggere l’episodio, è tutto giocato sugli sguardi e non sulle parole. Qualcuno, ditemelo voi, ci ha mai insegnato che la fede, la missione è innanzitutto una questione di sguardi, sguardi e non di prediche?
tornare all’aria della casa e della strada
Potessimo ritornare a quest’aria della casa e della strada, in cui ci si racconta e ci si passa la memoria di Gesù. Coltivare questo desiderio di vedere, di capire dove abita Gesù con i suoi pensieri. E cercare di assomigliargli. Lui è venuto, si è fatto uomo, perché anche noi, assomigliandogli, potessimo diventare veramente umani.
Troppa è la disumanità che fa spettacolo.
Il tempo si è fatto breve. Il tempo dell’altro, della donna e dell’uomo che incrociamo, che accompagniamo, è un tempo breve: penso alle donne e agli uomini di oggi, che hanno a disposizione ritagli di tempo.
Anche per cose importanti. Poco tempo, soprattutto in città. A che ora ritorna a casa la gente? Il lavoro invade i tempi. A volte rimane loro poco tempo per guardarsi negli occhi e per parlarsi.
Restituiamo dignità al poco tempo. Noi siamo per lo più abituati a dare valore al tempo lungo.
Anche nelle omelie! Il tempo breve – voi mi capite – ci chiede l’essenziale, la parola giusta al tempo giusto, che è quello e non altro. La parola giusta è Gesù di Nazareth, che ha ancora un fascino ingualcibile in coloro in cui è rimasta in qualche misura impigliata la memoria. Il pericolo è che se ne stia scolorendo il nome e il racconto. La mia sensazione è che oggi, nel tempo breve, non ci tocchino chissà quali dissertazioni, né una pletora di documenti, né forse grandi convocazioni.
Ma credere in Gesù e nella notizia buona del suo vangelo. Se indugi lì, qualcosa accade, arde il cuore. Ma occorre scrostare l’affresco.