L’irriducibile differenza della fede cristiana rispetto a ebraismo e islam
Pubblicato su: Dossier di Vita Pastorale ottobre 2022
di Enzo Bianchi
«E’falso sino all’assurdo vedere in una “credenza” il segno distintivo del cristiano: soltanto la pratica cristiana, una vita come la visse colui che morì sulla croce, soltanto questo è cristiano.
[...] Ancora oggi una tale vita è possibile, per certi uomini è persino necessaria: l’autentico,originario cristianesimo sarà possibile in tutti i tempi. [...] Non una credenza, bensì un fare, soprattutto un non-fare-molte-cose, un diverso essere » (L’anticristo, Adelphi). Queste parole di Friedrich Nietzsche costituiscono un buon punto di partenza per interrogarci su che cosa è essenziale alla fede cristiana e sulla singolarità del cristianesimo.
Ai nostri giorni siamo costantemente raggiunti dal messaggio che il cristianesimo è un monoteismo, accanto all’ebraismo e all’islam. Se questa è una verità, è importante per noi cristiani comprendere l’irriducibile differenza della nostra fede rispetto a quella dei credenti ebrei e a quella dei credenti dell’islam. Se, però, il cristianesimo è un monoteismo lo è in maniera molto particolare: è un monoteismo nel quale Dio si è fatto uomo, e nel quale un uomo concreto e reale, Gesù di Nazaret, ci ha narrato il volto di Dio.
Alla fine del Prologo del quarto Vangelo troviamo una vera e propria sintesi della fede cristiana: «Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito ce lo ha raccontato (exēghésato)» (Gv 1,18).
Ebbene, l’umanità ha sempre cercato Dio a tentoni,ma non poteva conoscerlo, restava nell’ignoranza; proprio per questo Dio ha alzato il velo su di sé, ha scelto di rivelarsi agli umani da Abramo in poi, ponendosi in alleanza con Israele e impegnandosi con esso mediante delle promesse. E così «Dio ha parlato per mezzo dei profeti», da Abramo fino a Giovanni il Battezzatore; infine lo ha fatto attraverso Gesù che si è rivelato l’ultima e definitiva parola di Dio agli umani.
La fede in Dio non è, dunque, condizione di accesso al Vangelo, ma è conoscendo l’esistenza umana di Gesù che noi possiamo essere condotti a Dio stesso e accedere al Dio vivente e vero.
Si tratta di un capovolgimento importantissimo, che in questi due millenni di cristianesimo non abbiamo ancora realmente assunto: all’interno della catechesi si continua a incominciare il discorso da Dio per giungere a Gesù solo in un secondo momento.
Dio: parola decisiva e tuttavia parola che si è prestata e si presta a utilizzazioni religiose, sociali, politiche e morali disparate.
Dio è una parola che può contenere tante proiezioni umane, frutto di una riflessione intellettuale, esito di una ricerca di senso fatta dall’essere umano. Come la fede d’Israele in Dio è stata generata da eventi nella storia, così anche la fede dei cristiani nasce dalla vita umana di Gesù: Dio ha, infatti, operato nella storia di un popolo e, infine, compiutamente, nella vita di un uomo (cf Eb 1,1-2).
Se dunque c’è un Dio, per noi cristiani è il Dio che deve essere conosciuto, letto e “visto” nell’esistenza umana di Gesù di Nazaret. Per questo il cristianesimo esige che Gesù sia conosciuto attraverso la sua vita narrata e testimoniata nei Vangeli.
Solo attraverso questa conoscenza potremo anche credere in lui fino ad amarlo, fino a confessarlo «Signore», «figlio di Dio», «Salvatore», e così giungere alla fede in Dio, alla conoscenza del Dio vivente e vero. Ecco perché ritengo sia un grave rischio quello di “deificare” Gesù prima di conoscerne la concreta esistenza umana.
In Gesù l’umanità è sempre trasparente: il divino è velato, ma nello spessore della sua umanità Dio è raccontato.
Nell’uomo Gesù la condizione di Dio ha subìto una kénosis, uno svuotamento: colui che era in forma di Dio si è spogliato della sua uguaglianza con Dio, e questo è avvenuto in modo che nella vita di Gesù non si vedesse altro che la sua umanità, un’umanità nella condizione di servo «fino alla morte, anzi alla morte di croce» (Fil 2,8)! Gesù è stato uomo, uomo come noi, depotenziato del divino e soggetto alla nostra limitata condizione mortale.
Occorre, infine, riflettere su quello che è sempre stato percepito come il proprium per eccellenza del cristianesimo: la risurrezione dai morti, possibilità inaudita aperta per tutti gli umani dalla risurrezione di Gesù, «il primogenito di molti fratelli» (Rm 8,29). Anche in questo caso è opportuno porsi con franchezza una domanda: perché Gesù è risorto da morte? Sarebbe troppo sbrigativo affermare che egli è risorto perché era figlio di Dio. Partendo dalla realtà della morte vorrei abbozzare una meditazione che consenta di comprendere in che senso
la risurrezione di Gesù è l’evento determinante della fede cristiana.
L’esperienza dell’amare
È qui che entra in gioco la riflessione che ogni uomo e donna fanno da sempre e in tutte le culture: vivere è amare. La nostra vita trova senso solo nell’esperienza dell’amare e dell’essere amati, e tutti siamo alla ricerca di un amore con i tratti di eternità. Ora, la grazia di un libro come il Cantico dei cantici, posto al cuore della Bibbia, consiste proprio nel fatto che in esso si parla di amore dall’inizio alla fine, dell’amore umano tra un ragazzo e una ragazza che diventa cifra di ogni amore.
A conclusione del Cantico si legge un’affermazione straordinaria: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore, tenace come l’inferno è lo slancio amoroso. Le sue vampe sono fiamme di fuoco, una fiamma del Signore» (Ct 8,6-7).
Qui si raggiunge una consapevolezza presente in numerose culture, che sempre hanno percepito un legame tra amore e morte (si pensi solo al celebre binomio greco éros-thánatos). La Scrittura, dal canto suo, ci illustra che amore e morte sono i due nemici per eccellenza: non la vita e la morte, ma l’amore e la morte! E la morte, che tutto divora, che vince anche la vita, trova nell’amore un nemico capace di resisterle, fino a sconfiggerla.
Con questo orizzonte, possiamo ritornare alla domanda: perché Gesù è risorto da morte? Una lettura intelligente dei Vangeli e poi di tutto il Nuovo Testamento ci porta a concludere che egli è risorto perché la sua vita è stata agápe, è stata amore vissuto per gli umani e per Dio fino all’estremo. In altre parole, se Gesù è stato l’amore, come poteva essere contenuto nella tomba?
È in quest’ottica che possiamo comprendere il cammino storico dei discepoli per giungere alla fede in Gesù risorto e signore. Alcune donne e alcuni uomini discepoli di Gesù si sono recati al sepolcro e l’hanno trovato vuoto: mentre erano ancora turbati da questa inaudita novità hanno avuto un incontro nella fede con il Risorto, presso la tomba, sulla strada tra Gerusalemme ed Emmaus, ai bordi del lago di Tiberiade... Ed è significativo che Gesù non sia apparso loro sfolgorante di luce, ma si sia presentato con tratti umanissimi: un giardiniere, un viandante, un pescatore. I discepoli hanno poi compiuto un cammino a ritroso che li ha condotti a ricordare,
raccontare e, infine, mettere per iscritto nei Vangeli la vita di Gesù sulle strade della Galilea e della Giudea. Essi hanno compreso che Gesù aveva narrato l’amore di Dio con le sue parole, con la sua maniera di stare in mezzo agli altri, di incontrare i malati e gli emarginati...
L’unico prezzo che il cristianesimo ci richiede per essere vissuto e compreso in profondità è quello dell’amore; quell’amore di cui canone, regola, forma è l’amore di Cristo.
Credere e sperare la risurrezione è una questione d’amore, perché solo l’amore ha provocato la risurrezione di Gesù. Forte come la morte è solo l’amore, più forte della morte è stato l’amore vissuto da Gesù Cristo: è questo che noi cristiani dovremmo annunciare, con umiltà e discrezione, a tutti.