Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

La comunione ecclesiale

03/11/2022 00:00

ENZO BIANCHI

Riviste 2022,

La comunione ecclesiale

Vita Pastorale

La messa non può essere un luogo di contestazione e divisione fraterna.
E la liturgia se non è celebrazione del Vangelo non può attirare nessuno.

Pubblicato su: Dossier di Vita Pastorale novembre 2022

 

di Enzo Bianchi

Scrive Papa Francesco nella lettera apostolica Desiderio desideravi che le tensioni, purtroppo presenti attorno alla celebrazione, non possono essere giudicate una semplice divergenza di sensibilità nei confronti di una forma rituale, ma che vanno comprese come divergenze ecclesiologiche. Per questo ha sentito il dovere di affermare che “i libri liturgici promulgati dai santi pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II in confronto ai decreti del Concilio Vaticano II sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano” (TC, art. 1).

 

L’espressione è forte e perentoria, ma certamente non nega che il Vetus Ordo in vigore fino alla Riforma liturgica sia stato in quei secoli espressione della lex orandi del Rito Romano.

 

Certamente l’attuale liturgia cattolica, che comunque necessita sempre e continuamente di riforma, perché la chiesa è semper reformanda, esprime la preghiera del Rito Romano, ma soprattutto esprime la fede della chiesa oggi, una fede nella tradizione, ma approfondita, arricchita, perché la liturgia cresce con la sua celebrazione sempre rinnovata. Accade per la liturgia quel che accade per la Parola di Dio: Divina Scriptura cum legente crescit!

 

D’altronde va ricordato a tutti che la tradizione è ciò che trasmette il fondamento della fede. Il pericolo è attaccarsi alle tradizioni e non a ciò che trasmettono. Una tradizione non vive se non si rinnova.

 

Per questo Papa Francesco, in Desiderio desideravi, ridice che il mandato ricevuto come successore dell’apostolo Pietro gli impone di custodire e confermare la comunione ecclesiale cattolica in una ricerca inesausta dell’unità. Ma a nessuno sfugge che questa unità alla quale tutta la chiesa deve tendere, e che sarà piena solo nell’éschaton, risulta contraddetta da porzioni di fedeli che si vogliono e si dicono fedeli alla tradizione, e da ultimo spezzata dalla realtà nata dallo scisma di mons. Marcel Lefevre. È vero che in Italia questa presenza di tradizionalisti è molto limitata e circoscritta, e per questo motivo la chiesa italiana non vi presta grande attenzione, ma sappiamo bene che in altri paesi – soprattutto in Francia, in Germania e negli Stati Uniti – i tradizionalisti costituiscono una minoranza ben attestata, non piccola e molto efficace sul piano della comunicazione e della visibilità. In una diaspora cattolica, tra cattolici sempre meno numerosi, la loro presenza appare significativa e capace di esprimersi con una militanza perseverante.

 

Occorre subito precisare che si tratta di una presenza variegata, che mostra diversi volti, diversi stili, diversi modi di stare nella comunione ecclesiale, con modalità di lotta per continuare a esistere molto differenti: da una critica ponderata e mite, a una contestazione quasi continua, fino ad arrivare a una delegittimazione della chiesa cattolica, di Papa Francesco e dei vescovi. A volte assistiamo al mutamento di una critica doverosa e filiale in un’accusa dura e convinta di tradimento della fede, e dunque un’accusa di eresia.

 

La situazione è grave, ed è tempo di smetterla di sorridere di questa porzione di chiesa, o addirittura di deriderla e disprezzarla. Praticare l’ecumenismo con tante comunità cristiane, a volte gravemente impoverite del nucleo della fede in Cristo, e non saper dialogare e camminare anche con i tradizionalisti non è certo segno di autentica carità fraterna, né di consapevolezza di essere uniti dall’unum baptisma, l’unico battesimo, che ci rende fratelli e discepoli di Gesù Cristo.

 

Possiamo noi arrivare a un discernimento sereno e mite di questa realtà? Nella mia esistenza di monaco e di cristiano cattolico, sempre attento alla vita così diversa nelle chiese, come ho sempre frequentato chiese e monasteri delle comunità cristiane non cattoliche ma ortodosse o riformate, così ho sempre frequentato anche comunità o monasteri che volendosi fedeli alla tradizione anteriore alla riforma liturgica hanno ottenuto la possibilità di continuare a vivere la liturgia celebrandola con il Vetus Ordo. Non mi bastava certo contemplare, partecipare e gustare la bellezza dei riti e del canto gregoriano, ma guardavo con attenzione alla vita umana e spirituale di quelle comunità, e ho sempre constatato un amore sincero per la liturgia, una fedeltà seria e profonda alla tradizione monastica, vissuta con intenzione evangelica, ricca di iniziative e di lavoro per vivere la condizione di tutti gli uomini, una vita comune capace di grande carità. Ho dunque mandato i miei fratelli monaci all’abbazia  francese di Le Barroux, una comunità fiorente, per imparare a fare il pane e, nei miei soggiorni in questo e altri monasteri tradizionalisti, ho potuto verificare che anche con loro “è bello e dolce vivere insieme”. Li ho sentiti semplicemente fratelli, e confesso che mi sono trovato meglio tra loro che in alcuni monasteri che si dicono fedeli al Vaticano II, ma che vivono una vita da residenza religiosa non monastica.

 

Resta significativa l’intervista che il nuovo abate di Solesmes ha rilasciato dopo l’udienza con Papa Francesco, il 5 settembre 2022. Dom Geoffroy Kemlin è a capo di una congregazione di monasteri nella quale alcuni celebrano con il Vetus Ordo preconciliare mentre altri seguono la riforma di Paolo VI, in vigore in tutta la chiesa cattolica latina. Era dunque doveroso da parte sua far conoscere al Papa le reazioni a Traditionis custodes registratesi in Francia e chiedergli come doveva comportarsi nell’applicazione del Motu proprio nei suoi monasteri. Papa Francesco a questo proposito gli avrebbe detto che spetta proprio a lui, abate di Solesmes, fare discernimento, e non spetta alla sua persona, anche se è il papa, perché abita a duemila chilometri di distanza. Letteralmente: “Tu sei un monaco, e il discernimento è proprio dei monaci. Non ti dico né sì né no, ma ti lascio discernere e prendere una decisione”. Consiglio, questo, che il Papa ha dato anche ad alcuni vescovi francesi, e questo ci dice che ciò che il Papa veramente vuole è l’unità, cosa che non impedisce una diversità di rito purché sia onorata la fede cattolica del mistero eucaristico.

 

In un’udienza con Papa Francesco nel 2014 il Papa mi chiese cosa ne pensavo dei tradizionalisti, e io gli dissi: “Santità, se accettano il concilio Vaticano II, se accettano realmente il suo ministero di successore di Pietro, se dichiarano valida la riforma liturgica e l’eucaristia normata da Paolo VI, li lasci vivere… La chiesa deve accettare una comunione plurale, non può più essere monolitica nelle forme”.

 

Continuo a restare della stessa opinione dopo tutti questi anni in cui l’eucaristia da vincolo di unità è diventata causa di divisione. E di questo occorre che si prendano la responsabilità non solo quelli che ricadono nella nostalgia del passato – “indietristi”, li chiama il Papa –, ma anche quelli che con i tradizionalisti non sono stati chiari, sono stati doppi e ambigui spingendoli senza che apparisse su posizioni di contestazione e di rottura con la chiesa.

 

Ecclesia Dei ha sempre agito con veridicità, lealtà, trasparenza nel tessere un dialogo con queste porzioni di chiesa?

 

E alcuni cardinali e vescovi da che parte stava nel dopo concilio: aderendo al Vaticano II e la conseguente riforma o criticandolo fino a diminuirne l’autorità?

 

Noi oggi viviamo già molte tensioni e opposizioni nella chiesa da non poterci permettere anche il venir meno di una pace eucaristica. La messa non può essere un luogo di contestazione e di divisione fraterna e perché si apra un cammino di vera comunione è quanto mai necessario che la celebrazione del Novus Ordo venga praticata evitando sciatteria, banalità, bruttezza. Attualmente la situazione rende veramente faticoso a molti cattolici frequentare la liturgia per trarne frutti spirituali. C’è troppo protagonismo del presbitero, troppa verbosità, canti poco curati e poco dignitosi, omelie che ormai si nutrono quasi solo delle scienze umane, di psicologia, di storia dell’arte: queste incantano tutti ma non convertono nessuno.

 

A mio giudizio, la situazione è drammatica e io comprendo come gli amanti della tradizione non riescano ad accedere sempre a nuovo Ordo ma restino ancorati all’antico rito che non deve mai essere disprezzato e svalutato. La liturgia, se non è mistero ordinato, se non è bella pur nella semplicità, se non è celebrazione del Vangelo non può attirare nessun, neanche attraverso la grazia. L’unità cattolica, poi, non può e non deve essere uniformità ma armonia multiforme, comunione plurale, in cui ognuno e tutti trovano possibilità di viva partecipazione. Traditionis custodes e Desiderio desideravi devono essere un invito per tutti a rinnovare la fede eucaristica attraverso un celebrazione sera e bella dell’eucaristia vissuta come comunione e non come occasione di divisione ecclesiale.