Corriere di Bologna - 01/12/2022
Intervista a Enzo Bianchi di Pier di Domenico
La morte come un enigma, un’ingiustizia. A cinque anni da La vita e i giorni. Sulla vecchiaia , scritto osservando quelli che diventavano vecchi come lui e con lui, Enzo Bianchi si interroga sull’aldilà. Il fondatore della Comunità monastica di Bose, che ha guidato fino a una brusca separazione, medita su come la morte possa insegnarci a imparare a vivere nell’amore. In Cosa c’è di là. Inno alla vita , pamphlet di 150 pagine edito dal Mulino, presentato oggi alle ore 18 in Salaborsa dal suo autore in dialogo con Vito Mancuso. Un libro, si legge nei ringraziamenti finali in cui vengono citati amici come Galimberti, Capossela, Recalcati e Dionigi, «scritto nella solitudine dell’esilio che mi hanno inflitto». Nella premessa poi, citando il Rimbaud de «l’amore s’ha da reinventare», Bianchi ricorda che «quando interviene la morte non lo si reinventa più: lo si ricorda, lo si rivive, lo si invoca, ma non lo si reinventa. E questo amore è mortale anche per chi resta».
Nel libro Bianchi, classe 1943, si propone di dire solo che gli è possibile dire: «Perché Dio nessuno l’ha mai visto, la sua presenza è elusiva e per noi resta inconoscibile. Quanto alla morte, anch’io la conoscerò solo quando sarà la mia ora, e prima posso solo prevederla, immaginarla, prepararla, ma resterà sempre un evento che non riesco a realizzare. Morte e aldilà, per un credente in Dio, sono realtà ultime dalle quali nessuno mai è tornato a noi per farcene un racconto. Sono un enigma che speriamo di vedere risolto in un mistero, una rivelazione su di noi e sul senso di questo mondo».
Neppure l’esilio forzato dalla sua Bose lo ha allontanato dalla convinzione che importante non sia la meta ma camminare insieme: «Vorrei che queste pagine fossero capaci di dire quel che vivo nella brevità dei giorni, ma amando la terra come me stesso, nella viva comunione che non conosce né confini, né barriere, né muri, ma solo la fragilità che a volte impedisce la bellezza. Perché se gli umani diventano cattivi è perché hanno paura della bellezza: non la bellezza salverà il mondo ma la bellezza sarà il mondo».
L’eternità come tempo senza fine, in cui contemplare Dio e ascoltare i canti degli angeli, angosciava già a 8 anni il piccolo Enzo, che aveva perso la mamma: «È il limite della morte a rendere possibile la vita e ciascuno di noi è vivente a condizione di essere mortale: ciò che non muore neppure vive, ciò che non appassisce non è mai stato vivente. Noi dobbiamo esserne pienamente coscienti: portiamo il nome datoci dagli antichi greci di “mortali”, “mangiatori di pane”, e perciò la morte è nella nostra vita mentre la nostra vita non è sempre morte. Proprio il tempo e la morte sempre più vicina sono i grandi scultori della nostra vita personale e della vita dell’umanità». L’unico antidoto per Bianchi sembra risiedere nell’amore: «Resto convinto, dopo tutta una vita certamente molto travagliata e non aliena da sofferenze, che vivere amando e accettando di essere amati sia dare all’oggi la profondità dell’eternità. Solo l’amore innesta nella nostra vita mortale l’eternità». Amore da poter utilizzare anche di fronte al dolore: «Guai a chi beatifica il dolore, guai a chi spende troppe parole sulla sofferenza: sovente il silenzio, lo sguardo, una carezza, la mano nella mano sono l’unico modo per alleviarli». A chi trova difficile spegnere l’angoscia del pensiero della morte, Bianchi suggerisce che «la strada da seguire è solo quella dell’amore, vivendo in pienezza la vita, per quel tempo che ci è concesso».
Da anni di sera, prima di salire sul suo letto, Bianchi bacia la terra, sentita come madre, a segnare la sua disponibilità a tornarvi. Anche oggi, che ha fatto ritorno nel paese dove è nato nel Monferrato e dove ha acquistato, nel cimitero, un fazzoletto di terra dove essere seppellito: «È rivolto a oriente, con un piccolo spazio per una panchina che possa far sedere e riposare accanto a me chi mi verrà a trovare e vorrà dirmi qualche parola»