Pubblicato su: Jesus - Rubrica La bisaccia del mendicante - Gennaio 2018
di ENZO BIANCHI
Fra le esperienze faticose e a volte anche dolorose che segnano il mio essere viandante sulle strade del mondo c’è anche quella della comunicazione tra amici, fratelli e sorelle, persone che incontro per brevi o lunghi tratti di strada. Non che la comunicazione sia impossibile o cattiva: sovente è mancante. Siamo in una cultura caratterizzata dal primato della parola e dell’immagine, innanzitutto della parola, che vogliamo appropriata, chiara, mite razionale, onesta. Siamo tutti convinti che per allontanare violenza e aggressività occorra “parlarsi”, ascoltare l’altro ed essere ascoltati. Psicoanalisi ed etica hanno conferito un valore pressoché esclusivo alla parola e così ci siamo esercitati ad ascoltare, interpretare, misurare la parola.
Ma c’è anche il più recente primato dell’immagine, perché ormai nella nostra società le immagini formano il nostro panorama visivo quotidiano e non sono più confinate in quello che, appunto, chiamiamo “immaginario”. Nei secoli passati, l’immagine come rappresentazione si presentava come un’occasione rara: le uniche immagini erano quelle che gli occhi potevano catturare nella realtà, là dove si era fisicamente presenti. Oggi immagini virtuali di ogni tipo dominano e catturano la nostra attenzione.
Ora, in questa situazione di comunicazione verbale e immaginativa, mi chiedo dove si situa la corporeità, il mio corpo e quello degli altri. Il corpo infatti è sì presente quando si parla di sofferenza, malattia, morte o quando è implicato l’esercizio della sessualità, ma pare dimenticato nella sua ordinaria quotidianità. Eppure io sperimento di capire meglio l’altra e di essere capito più in profondità quando ci stringiamo la mano, quando dono o ricevo una carezza, quando sediamo accanto condividendo il cibo che non in un dialogo o un coloquio. La vita non può essere ridotta a scambio di parole perché oltre la parola e al di là delle immagini c’è il corpo, la carne.
Aspetto specifico e dirimente nella fede cristiana è l’incarnazione: Dio si è fatto carne (sarx), corpo di un uomo. Gesù di Nazareth era un uomo, vero uomo, carne della nostra carne, e Dio ha voluto mettere la sua tenda, la sua presenza in mezzo a noi. E se Gesù ci ha salvato, è proprio attraverso questa carne, questo corpo che ha incontrato corpi umani e che ha conosciuto la sofferenza e la morte. Nel corpo di una donna Gesù è stato concepito e plasmato, il suo corpo è stato oggetto di sollecitudini materne e paterne, con il suo corpo ha incontrato coloro che ha amato, ha servito, ha guarito, ha consolato. È morto come corpo nudo appeso a un legno, come altri due corpi nudi di condannati come lui. È il suo corpo che le donne sono venute a cercare al sepolcro, senza trovarlo perché risorto! Dovremmo ricordare non solo le parole di Gesù, non solo i suoi sguardi, ma anche i suoi gesti umanissimi che toccavano corpi di malati e si lasciavano toccare… Alcuni pensano che ci sia “un problema del cristianesimo con il corpo”, ma nei vangeli il corpo di Gesù è “ingombrante” e non lascia posto a immagini celestiali, spiritualizzate, incorporee di Gesù. Egli è il “nuovo Adamo” anche nel suo essere adam, “terrestre”.
Per questo nella nostra vita quotidiana la comunicazione con l’altro deve impegnare anche la dimensione corporale dei due interlocutori: mano nella mano, occhio contro occhio, guancia a guancia affinché l’incontro avvenga, al di qua e al di là delle parole, anche attraverso il gesto. Dovremmo leggere e interpretare in modo più approfondito e fecondo i gesti di Gesù che tocca il lebbroso, quasi lo abbraccia – come farà san Francesco, il somigliantissimo – e lo fa non per penitenza ma con gioia, sapendo che la sua santità guarisce e purifica; dovremmo meditare il gesto di Gesù durante l’ultima cena: in ginocchio davanti a ciascuno dei discepoli, prende i loro piedi tra le sue mani, li lava e li asciuga per dire loro a nome di Dio: Lasciati amare e servire! Nessuna parola accompagna questi gesti, eloquenti di per se stessi: sono gesti compiuti da un corpo verso altri corpi.
Vorrei davvero che la comunicazione non fosse monca, perché al di là delle parole – troppo spesso non chiare, confuse, irritanti, contraddittorie – si riuscisse ad ascoltare il corpo dell’altro: la comunicazione vedrebbe dissipati molti malintesi e si rivelerebbe più autentica ed efficace, una comunicazione incarnata.