Pubblicato su: Jesus - Rubrica La bisaccia del mendicante - Dicembre 2017
di ENZO BIANCHI
Durante il cammino ogni mendicante estrae dalla bisaccia il necessario per vivere: non solo il pane, ma anche ogni parola che, uscita dalla bocca di Dio, è giunta a lui attraverso la voce di altri pellegrini, come lui mendicanti d’amore. Vorrei allora ricordare qualcuno di questi testimoni della speranza che hanno offerto cibo per la mia vita spirituale nel corso del mio pellegrinaggio di sequela dell’unico Signore.
Qualche tempo dopo la pubblicazione, nel 1972, del mio primo libro, Il corvo di Elia, scoprii e lessi con estremo interesse Seigneur, apprends-nous à prier di p. André Louf, allora abate del monastero trappista di Mont-des-Cats. Ricordo che, ammirato, così commentai con uno dei miei fratelli: “Se avessi letto prima il libro di Louf, non avrei nemmeno scritto il mio!”. Iniziò così la “conoscenza” di questo padre del monachesimo che con il tempo sarebbe diventato per me e la mia Comunità un amico e un fratello tra i più cari e quelli maggiormente in sintonia con il nostro modo di concepire e vivere la vita monastica – e, prima ancora, cristiana e umana – nella compagnia degli uomini.
Padre André era certamente un “visionario”, ma non nel senso con cui solitamente si indica chi sa vedere nel futuro delle chiese, del mondo o della vita monastica, bensì un visionario che teneva fisso lo sguardo sul cuore dell’uomo, “l’uomo profondo del cuore” (1Pt 3,4), “l’uomo interiore” (2Cor 4,16). Conosceva bene, da autentico “dioratico” queste profondità, questo luogo segreto in cui la voce di Dio entra in contatto con il nostro sentire, volere, operare (Fil 2,13). Ecco perché ricorrevano a lui uomini e donne, monaci soprattutto, per manifestargli i “pensieri più profondi” e ricevere tramite lui la luce dello Spirito sulle regioni tenebrose e sugli inferni che abitano ciascuno di noi.
Louf era un “uomo della Parola” e soprattutto un uomo del Vangelo, che commentava nelle omelie durante le liturgie eucaristiche, ma che risuonava in lui costantemente perché era in costante meditazione, ruminatio delle parole attinte dalla liturgia e dalla lectio. Per questo poteva dire: “Ogni mattina, al capitolo, io creo la mia comunità”, perché della parola di Dio si faceva sempre eco, non limitandosi a ripeterla ma accogliendola, vivendola e sperimentandola. Proprio grazie al suo amore per la lectio divina mi chiese di predicare gli esercizi alla sua comunità. Fu un’esperienza di grande fraternità con lui, che mi permise di conoscere in profondità un monaco forte, che sapeva bene cosa il Signore chiedeva a lui, innanzitutto, e alla sua comunità, ma anche un uomo mite, misericordioso, capace di grande amicizia e affettivamente molto sensibile. Non dimenticherò mai la cura che si era preso di un suo monaco mandato a Roma a studiare e che a Roma si era smarrito, lasciando cadere appartenenza monastica e vita cristiana: lo seguì finché fu possibile e incaricò me, che andavo sovente a Roma, di stargli vicino e di accompagnarlo nella malattia che lo avrebbe portato alla morte.
Ma ciò che in p. Louf mi ha sempre colpito – e mi resta come l’eredità del più grande maestro spirituale che abbia conosciuto – è il suo grande messaggio sul primato della grazia in tutta la vita cristiana e monastica, che non è “vita di perfezione” bensì “vita di imperfezione” nella quale la grazia rialza chi cade, ama la debolezza, è santità contagiosa verso il peccatore, vince ogni paura e ogni peccato. P. André diceva che Dio non è felice quando vede qualcuno che non ha bisogno di misericordia perché pratica scrupolosamente legge e disciplina cristiana e monastica! Dio ama il peccatore perché in lui può dispensare la sua grazia e mostrare l’ampiezza del suo amore misericordioso. Le virtù, infatti, imbarazzano il Signore se non sono frutto della sua grazia!
Davvero p. André Louf è stato – e le sue parole sono tuttora – per me, per i miei fratelli e sorelle, per un gran numero di uomini e di donne una guida sicura in tale cammino alla ricerca dell’“uomo nuovo”, posto nel nostro cuore mediante la grazia del battesimo, e che lungo tutta la vita il credente è chiamato a far emergere, lasciandosi assimilare al Figlio dell’uomo, a colui che “ci ha insegnato a vivere in questo mondo” (cf. Tt 2,11-12). un uomo, un cristiano, un monaco nei confronti del quale molti, come me, hanno contratto un enorme debito di gratitudine.