Pubblicato su: Luoghi dell'infinito - Luglio Agosto 2017
di ENZO BIANCHI
Il paesaggio da cui provengo è quello collinare del Monferrato e delle Langhe, colline e colline senza fine – le cui cime chiamiamo “brich” –, colline quasi sempre coperte di vigne e, solo se rivolte a nord, boschive. Ma anche in una terra collinare salire il “brich” era per me qualcosa di straordinario: il paesaggio si apriva e si potevano vedere le alpi e distinguere bene le cime del Monviso, il monte visto ovunque, il massiccio del monte Bianco e il monte Rosa; si poteva volgere lo sguardo fin dove giungeva il Piemonte, la terra “ai piedi dei monti”. Il mare ligure non si vedeva, così quando si riusciva ad andare al mare l’emozione era grande davanti a quella distesa azzurra che incuteva soprattutto curiosità: cosa ci sarà oltre il mare?, ci chiedevamo…
In montagna si andava qualche volta, raramente, ma giunto nelle valli avevo l’impressione di trovarmi di fronte ad altezze irraggiungibili, che mi sovrastavano fino a incutermi timore. Confesso che non ho mai scalato montagne; ho certamente amato fare passeggiate, ma se salgo su un monte le vertigini mi colgono e, dopo una salita per raccogliere stelle alpine o fiori di artemisia, la discesa mi pare paurosa. Sì, la montagna mi incute timore, mi affascina e nello stesso tempo mi intimorisce. Se il sacro è tremendum et fascinosum, la montagna è la realtà più sacra che conosco.
Per questo, credo, da sempre gli esseri umani hanno visto le montagne come dimore degli dèi, come simbolo del mistero trascendente, come luogo “altro” rispetto al loro abitare la terra, altare naturale che si leva verso Dio. In tutte le culture il monte ha una valenza simbolica, stabile e incrollabile, e per questo è abitato da Dio, è alto e irraggiungibile come il Dio che dimora nei cieli, sovente coperto da nubi che lo nascondono, come Dio è nascosto (cf. Is 45,15). Pochi lo sanno, ma il nostro Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, che si rivelerà a Mosè con il nome ineffabile di JHWH, ha come primi nomi ’El ’Eljon, l’Altissimo, e anche ’El Shaddaj, il Montanaro, colui che abita le cime dei monti, titoli purtroppo spesso tradotti con Onnipotente o Potente.
Nella Bibbia molti sono i monti – sovente poco più che alture o colline – nominati, descritti, ricordati come luoghi significativi “santi”, cioè altri. Certo, molti monti sono le alture sacre delle credenze cananaiche che i profeti desacralizzano e combattono perché luoghi di idolatria. Alcuni monti invece sono testimonianze dell’azione di Dio nella storia di Israele, memoriali di eventi nei quali il Signore Dio si è rivelato, ha alzato il velo su di sé facendosi conoscere al suo popolo. Impossibile in questo contesto ricordarli tutti: dal monte Ararat, sulla quale si ferma l’arca di Noè dopo il diluvio (cf. Gen 8,4); al monte Gelboe (cf. 1Sam 31), dove morì il primo unto, il Messia; al monte Tabor, già menzionato nei salmi (cf. Sal 89,13), sul quale Gesù fu trasfigurato (cf. Mc 9,2 e par.); al monte degli Ulivi, dove Gesù fu acclamato Messia, figlio di David (cf. Mc 11,9-10 e par.) e da dove salì al cielo (cf. Lc 24,50-51; At 1,9-11).
Ho operato dunque una scelta, limitandomi a riflettere solo su tre montagne: il monte Moriah, il Sinai-Oreb e infine la mia esperienza di salita e discesa dal monte Nebo.
1. Il monte Moria
Il monte Moriah è quello su cui il Signore invita Abramo a salire con Isacco, il figlio della promessa, per offrire un sacrificio (cf. Gen 22). Abramo vi sale portando la legna per accendere il fuoco, ma solo durante la salita Isacco diventa consapevole di essere lui la vittima designata per il sacrificio. Il midrash che commenta questo racconto ci fornisce un approfondimento commovente: padre e figlio salgono il monte concordi, Abramo come sacrificatore e Isacco come vittima del sacrificio, entrambi nel pianto ma obbedienti al Signore al punto da rinunciare a se stessi, rispettivamente al proprio essere padre e figlio promesso. Il Moriah è il monte della fede obbediente, della passione per Dio: su quel monte “Dio vide” o “fu visto” (Gen 22,14). Qui venne stretta l’alleanza tra Dio e Abramo e la sua discendenza, così che esso assurge al rango di memoriale.
I rabbini identificheranno questo monte con l’altura di Gerusalemme, dove venne costruito il tempio di Salomone come luogo della dimora della Shekinah, della Presenza del Dio vivente, luogo ombelico del mondo, dove per secoli furono compiuti sacrifici di comunione e di perdono. Su questo monte il tempio indicava il sito dove il Dio tre volte santo dimorava sulla terra e il Santo dei santi lo testimoniava (cf. 2Cr 3,1).
E i padri della chiesa, memori del sacrificio di Gesù Cristo sulla croce, identificheranno il monte Moriah con il luogo del Cranio, la collina calva fuori delle mura di Gerusalemme (cf. Mc 15,22 e par.; Gv 19,17): dove fu sacrificato Isacco, che Abramo riebbe vivo come risorto (cf. Eb 11,17-19), anche Gesù fu dato dal padre al mondo da lui amato (cf. Gv 3,16). Riferendosi a tradizioni rabbiniche, i padri diranno che quel monte è anche il luogo della morte e del seppellimento di Adamo, il terrestre. Dove Adamo è morto, anche Cristo è morto, quale nuovo Adamo, ma per risorgere a vita eterna. L’iconografia cristiana, che purtroppo nessuno più sa leggere, testimonia questa tradizione: sotto la croce, in un piccolo antro, vi è un cranio che non è simbolo della morte o allusione al “Memento mori”, ma il cranio di Adamo sul quale è sceso il sangue di Gesù, che ha portato la salvezza.
Il monte Moriah, dunque, ha attraversato i secoli, accumulando su di sé interpretazioni, simboli, immagini…
2. Il monte Sinai-Oreb
Il monte Sinai-Oreb è “il monte di Dio” (Es 3,1; 24,13), oggi chiamato anche Gebel Musa, montagna di Mosè, ai piedi del quale sorge il monastero ortodosso di Santa Caterina del Sinai. In molti passi dell’Esodo e dei Numeri prevale l’appellativo Sinai, mentre nel Deuteronomio e nelle tradizioni successive lo stesso monte è chiamato Oreb.
È questo il monte sul quale Dio si è rivelato a Mosè, fuggiasco in terra straniera, la terra di Madian (cf. Es 3). Mentre Mosè pascola il gregge, ecco che si accorge di un roveto ardente, una fiamma di fuoco dalla quale il Signore lo chiama, chiedendogli ascolto e consegnandogli il Nome santo: “Io sono colui che sono” (Es 3,14). Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ha un Nome finalmente rivelato a Mosè e consegnato quindi al popolo di Israele che egli deve liberare dalla schiavitù d’Egitto. Quando Mosè avrà adempiuto la missione affidatagli, dopo essere uscito con il popolo dall’Egitto verrà di nuovo a questo monte, per adorare il Signore. Dio stringerà con questo popolo l’alleanza (cf. Es 19-24), diventando il Dio di Israele, che a sua volta sarò il suo popolo per sempre. Alleanza sulla base di dieci parole (cf. Es 20,1-21) che impegnano Israele a essere testimone di Dio tra le genti, a essere il figlio di Dio, cui è destinata la promessa fatta ad Abramo, la promessa di una terra dove Dio abiterà in mezzo al suo popolo.
Sul monte Sinai-Oreb (a cui salirà anche Elia: cf. 1Re 19) il Signore dimora, ma quando il popolo deve muoversi per entrare nella terra la nube, segno della Shekinah di Dio, scende nella tenda e accompagna il popolo nel cammino (cf. Es 14; 33): Dio è l’Immanu-El, il Dio-con-noi (Is 7,14; Mt 1,23). Se abitava il monte Sinai-Oreb, abiterà poi il monte Sion, dove il tempio sarà costruito (cf. 1Re 8,10-13).
3. Il monte che molto mi ha insegnato
Sono salito più volte sul monte Moria, cioè il monte Sion sul quale sorgeva il tempio di Gerusalemme e ora fanno il loro culto le genti che nei loro tempi (“i tempi delle genti”) calpestano Gerusalemme (cf. Lc 21,24). Sono salito anche sul Sinai, dove ho sostato in preghiera contemplativa, partecipando all’incessante preghiera dei monaci ortodossi di Santa Caterina. Ma mi sembra doveroso ricordare un altro monte, il monte Nebo, che in un momento preciso della mia vita ha mutato per me significato.
Nel 1977 ero a Gerusalemme, in una lunga sosta, per imparare l’ebraico moderno. Con un fratello della mia comunità decidemmo di fare un pellegrinaggio al monte Nebo, dove Mosè era morto, escluso dalla terra promessa, in vista della quale aveva compiuto la liberazione del popolo schiavo in Egitto. Andammo alle pendici del monte Nebo in autostop sulle strade della Giordania, allora veramente percorse solo da beduini, senza turisti. Giunti ai piedi del monte, là pregammo leggendo il racconto biblico della morte di Mosè (cf. Dt 34). Meditammo sul dialogo tra Mosè e Dio immaginato dai rabbini: “O entri tu, oppure entra il tuo popolo…”. Poi alla sera, sempre in autostop, raggiungemmo Amman, dove alloggiavamo presso l’ospedale italiano gestito dalle suore comboniane.
Dopo cena le suore ci diedero le camere in una corsia dell’ospedale. Per il caldo passeggiavo nel corridoio, quando udii dei gemiti. Entrai in una stanza e vidi dei bambini nei lettini: uno aveva aghi nelle vene della testa che lo nutrivano e lo dissetavano, perché le suore lo avevano trovato denutrito e disidratato. Andai poi a dormire e il mattino dopo mi riaffacciai in quella stanza: quel bambino di pochi mesi era morto. Subito mi tornò in mente la morte di Mosè. Eravamo saliti sul monte Nebo per pregare e fare memoria della morte del grande profeta, e qui era morto un bambino anonimo di pochi mesi: ma per il Signore quel bambino era come Mosè, un figlio amato! Mi sentii allora spinto ad andare vicino a quel lettino e a inchinarmi come avevo fatto dove era morto Mosè, sul monte Nebo…