Pubblicato su: Luoghi dell'infinito - Giugno 2017
di ENZO BIANCHI
Se c’è un ambito in cui viene spontaneo collegare l’architettura alla natura, questo è lo spazio delle pievi e delle chiese rurali. Vengono alla mente non tanto le chiese parrocchiali al cuore del villaggio o nelle piazze cittadine, e nemmeno i grandi santuari che hanno progressivamente trasformato l’ambiente naturale circostante in un tessuto di complessi architettonici funzionali all’edificio principale, quanto piuttosto le pievi romaniche disseminate lungo gli antichi cammini di pellegrinaggio ora messe ai margini delle grandi vie di comunicazione, le chiesette di montagna che oggi offrono agli escursionisti quel riparo e quella sosta del corpo e della mente che un tempo donavano quotidianamente a chi quei sentieri li percorreva portando il bestiame al pascolo, mietendo fieno sui ripidi pendii, tagliando legna per costruire e riscaldare le proprie abitazioni.
Tra queste annovero anche la pieve romanica di San Secondo che, abbandonata e in rovina, attirò il mio sguardo più di cinquant’anni fa, nonostante avesse ormai perso la sua preziosissima funzione di polo di convergenza per la celebrazione della fede da parte degli abitanti sparsi nel contado circostante. Ripararla e renderla nuovamente agibile al culto e alla preghiera personale fu lo stimolo per l’insediamento di una nuova vita comune in quella piana che i cristiani dell’XI secolo vollero dedicare a un martire soldato romano, appartenente alla legione “tebana”, formata da persone provenienti da quell’area dell’Egitto dove i padri del monachesimo avevano trasformato “il deserto in città” dello spirito.
È in chiese così che l’architettura si sposa alla perfezione con la natura. Il luogo viene scelto con l’attenzione tipica di chi conosce il territorio: vicinanza a un corso d’acqua; una pur ridotta radura che consenta il convenire e lo stare insieme anche all’esterno della chiesa e, al contempo, la visibilità di uno spazio dove la gratuità si arricchisce del silenzio; l’orientamento appropriato affinché la luce del sole penetri al momento giusto e negli spazi appropriati per divenire simbolo eloquente della luce di Cristo… Sovente i materiali sono semplici, poveri, come le persone che li usano: pietre ricavate dal torrente adiacente, mattoni cotti nella fornace locale, calce che trae la propria consistenza più dalla passione e dalla fatica dei lavoratori che non dalle sue proprietà naturali. Tutto questo fa sì che anche quando le finestre sono solo minuscole fessure incastonate tra muri massicci, non si avverte contrasto tra interno ed esterno, tra natura e architettura. C’è differenza, sì, ma non opposizione, tra l’ombra silenziosa della navata e il cinguettare degli uccelli in volo attorno al campanile, tra il raccoglimento orante dell’abside e lo sguardo che abbraccia il brulicare della natura, tra la memoria delle generazioni che nello spazio delimitato da quelle mura hanno celebrato le loro gioie e i loro dolori, le loro speranze e le loro fatiche e, d’altro lato, il presente che arresta per un attimo la propria frenesia, liberato dall’incombere di un “fare” votato all’ “avere” e orfano dell’ “essere”.
Natura e cultura di un popolo si abbracciano nell’architettura sacra: la realtà del creato che gli occhi contemplano aiuta a scorgere l’invisibile, mentre la perizia di chi delimita e organizza gli spazi diviene bussola per orientare i cammini del cuore e dello spirito. Architettura vuol dire anche funzionalità (che è altra cosa dall’ansia dell’efficienza), stabilità e durata (che è altro rispetto all’immobilismo), armonia tra edifici e persone (che non è contiguità strumentale): sono tutti doni che un sapiente dialogo con la natura esalta, come il fuoco esalta sapori e colori di un cibo prelibato.