Pubblicato su: Jesus - Rubrica La bisaccia del mendicante - Maggio 2017
di ENZO BIANCHI
Una volta per fare un viaggio ci voleva tempo. Oggi non sembrerebbe più necessario, perché il viaggio non si prepara neanche più, lo si fa in fretta, e proprio il tempo determina ogni movimento, ogni decisione. Ma per fare un vero viaggio occorre avere tempo, darsi del tempo, prendersi del tempo e non avere paura della lentezza. Fare un viaggio e andare di corsa sono due realtà in contraddizione tra loro. Solo viaggiando, dunque ponendo l’accento sul fare strada, fare via, si può vedere ciò che è bello e ciò che è brutto, si può diventare consapevoli che “camminando si apre cammino”, secondo la straordinaria espressione di Antonio Machado.
Un vero viaggio nasce sempre misteriosamente nella nostra psiche, dove si accende la curiosità grazie a diversi impulsi: una parola in una conversazione, un quadro appeso a una parete, una rivista sfogliata distrattamente ma capace di catturarci con qualche foto, un ricordo, un amore… Allora nasce il desiderio di partire, si progetta e si decide il viaggio: da soli, per gustare nella solitudine ciò che il viaggio può riservare a chi lo fa; o insieme ad altri, per potersi emozionare insieme e vivere insieme l’avventura. A volte il viaggio ha una meta che preme e si impone come sua ragione, altre volte invece è l’idea del viaggiare che ci spinge a partire. Partire e poi fermarsi quando si vuole e dove si vuole, senza troppi orari, cercando di raggiungere anche luoghi remoti, al di là di ogni itinerario prefissato: perché il viaggiare è più importante della meta… Lungo il cammino ci saranno opere d’arte da vedere, monumenti da visitare, ristoranti da gustare, persone da incontrare spazi per fermarsi a passeggiare e a pensare. Lasciando posto al non atteso, alla sorpresa e all’incontro che può far cambiare ritmi e mete, sostare di più in un luogo, compiere insieme ad altri gesti e azioni non previsti.
A volte in viaggio si incontrano contraddizioni, incidenti, e non tutto va come previsto. Ma questo non è decisivo, non è neppure causa di arrabbiatura, purché uno si sia dato tempo. In verità l’unica contraddizione al viaggio fatto insieme ad altri è la mancanza di accordo sui ritmi del viaggio. Allora si accendono oscure rabbie trattenute, che fanno promettere di non fare più viaggi con quelle persone: meglio che ognuno faccia il “suo” viaggio. Sì, perché il viaggio dev’essere vissuto nella pace, altrimenti è avvelenato e diventa insopportabile. Per questo da giovane ho amato viaggiare da solo, nonostante i rischi e la solitudine, in India, in Nepal, in Thailandia, in Indonesia e nel Mediterraneo, questo “nostro mare” sulle rive del quale si è sempre a casa, si è sempre tra gente “nostra”, si vedono sempre le stesse case con i loro balconi e i loro tetti che riflettono la luce del sole bruciante in estate, argenteo in inverno.
E il cuore nel viaggio? È un continuo rispondere a emozioni diverse: la meraviglia, la contemplazione, la scoperta, l’incontro con l’incognito, la nostalgia, l’incanto. Nulla si ripete, mentre nella nostra memoria accumuliamo immagini, suoni, profumi, parole, colori che non ci lasceranno più e che dal profondo del cuore risorgeranno quando, anche ad anni di distanza, ricorderemo quel viaggio.
In viaggio soste decisive sono quelle fatte per mangiare: mangiare è l’atto con cui chiediamo di essere accolti da una terra, da una gente. Accettare di mangiare ciò che loro mangiano chiedendo di sedersi alla tavola che è loro è il modo più semplice e più profondo per condividere l’umanità che ci accomuna: del resto, viaggiare non è altro che chiedere alloggio, cibo e incontro. Anche per questo il bagaglio dev’essere ridotto, essenziale, affinché l’altro possa fare dono di ciò che ha e di cui dispone. In viaggio, dunque, verso le ore tradizionali del luogo ecco il bisogno di sostare e cercare una tavola, un semplice ristorante, un’osteria, un bistrot, dove altri sono seduti a mangiare e dove far fiducia di poterci ristorare con gusto. I piatti, certo, saranno quelli del luogo: c’è uno sforzo di conoscenza dei cibi da compiere, una sapienza antica che recita: “dimmi cosa mangi, e ti dirò chi sei”. Si tratta di imparare a conoscere e scegliere i piatti e a cercare di cogliere da dove vengono, quale lavoro umano li ha prodotti, l’arte di cucinarli, la sapienza che ha permesso nei secoli a quei cibi di permanere come tipici di quella terra e di quella gente. La tavola è luogo di convivialità grazie alla conoscenza che si instaura attorno a essa. Occorrerebbe essere sempre disponibili ad ascoltare chi ci offre i piatti: camerieri, osti, magari il cuoco stesso, occorrerebbe sbirciare in cucina e capire gli ingredienti. Che soddisfazione quando viaggiando in un paese sconosciuto, prima di mangiare, si riesce ad andare al mercato e a rendersi conto delle verdure del luogo, dei frutti, delle carni o dei pesci che potremo trovare in tavola... Allora si gioirà con ancora maggior gusto guardando i colori del piatto, annusandone i profumi, gustando cibi così diversi dal nostro quotidiano eppure, nella loro semplicità, così quotidiani per quella terra e quella gente che ci ospita a tavola.
Se questo pranzo è fatto nella lentezza, allora fa scoprire profumi, colori, gusti che rimarranno impressi e ci arricchiranno in esperienza e in sapienza. Anche questo servirà per dare sapore ai giorni della vecchiaia, quando vivremo più di ricordi, di vissuto, che non di futuro. La tavola, così differente in ogni angolo del mondo eppure così simile nel suo essere il luogo della convergenza, della convivialità, della parola scambiata, del riso che scoppia, del sussurro di parole amorose. E se poi ci sono calici per versarvi il vino, allora tutti i sensi sono convocati alla festa. Il vino è il sigillo posto su un pranzo: non si è a tavola solo per mangiare, per nutrirsi, ma anche per dirsi quelle parole di cui il vino è simbolo. Il vino ha anche il potere di convocare gli assenti alla tavola: sempre, quando si alza la coppa del vino e si brinda ai presenti, si dovrebbe pensare a quanti amiamo e presenti non sono. Impossibile alzare il calice della sintesi amorosa e non convocare tutti gli amati. Il vino è sulla tavola quale segno di nuzialità erotica con la terra e di erotico amore con gli amati.
Se si è attenti e vigilanti, viaggiare diventa un incontro con il mondo, che si dà a noi attraverso la profusione dei sensi. Non è solo guardare, anche se guardare è la prima operazione del viaggio, ma è immersione negli odori e nei profumi, è intersecare suoni e rumori, è mangiare, gustare e toccare il mondo. Viaggiare è sempre un cammino attraverso i sensi, un esercizio di sensualità, perché è il corpo che si muove tra i corpi, è l’occhio che incontra la luce, è l’orecchio che trova la collocazione, è il tatto che percepisce il freddo e il caldo, mentre i piedi toccano la terra in una relazione viva, in una sensazione mai uguale, delle quali non restano tracce.
Sì, ogni viaggio, vissuto bene, è un libro della biblioteca della vita. Ora che sono vecchio capisco bene il consiglio di un kalógheros del monte Athos: “Siediti e va’!”. Ma a patto che, prima di sederti, tu abbia viaggiato molto.