21 dicembre 2011
di ENZO BIANCHI
“In Christo / Bo Xructe» è il titolo di una straordinaria ostensione, uno scambio di capolavori che a conclusione dell’Anno della cultura italiana in Russia e russa in Italia, raccoglie tra Firenze e Mosca
Tre capolavori dell’arte antica russa in mostra a Firenze
in cambio di due dipinti
di Giotto prestati a Mosca
La Stampa, 21 dicembre 2011
di ENZO BIANCHI
“In Christo / Bo Xructe» è il titolo di una straordinaria ostensione, uno scambio di capolavori che a conclusione dell’Anno della cultura italiana in Russia e russa in Italia, raccoglie tra Firenze e Mosca cinque grandi opere nel nome della fede e dell’arte. Da oggi al 19 marzo saranno ospitate all’interno del Battistero di Firenze tre preziose icone di arte antica russa della Galleria Statale Tretyakov di Mosca, mai tornate in una chiesa dopo la loro musealizzazione avvenuta in seguito alla Rivoluzione del 1917: si tratta della maestosa icona della Madre di Dio Odighitria, realizzata alla fine del XIII secolo a Pskov; dell’icona della Ascensione del 1408, parte dell’iconostasi della cattedrale della Dormizione nella città di Vladimir, e legata alla produzione del maggiore pittore di icone della tradizione russa, il santo monaco Andrej Rublëv; e dell’icona della Crocifissione eseguita da Dionisij nel 1500. In contemporanea, alla Tretyakov Mosca saranno esposte per la prima volta due grandi opere di Giotto e bottega, provenienti dall’Opera di Santa Maria del Fiore a Firenze: la Madonna col Bambino del 1280-1290, noto capolavoro del primo periodo artistico del genio fiorentino, e il Polittico di Santa Reparata, realizzato verso il 1305 e di recente ricondotto alla cerchia del maestro italiano. La mostra doppia «In Christo / Bo Xructe» è accompagnata da un catalogo edito da Treccani che ospita tra gli altri un saggio di Enzo Bianchi di cui anticipiamo uno stralcio.
La più celebre delle icone russe, l’icona della Trinità in cui il santo monaco Andrej Rublëv rilegge creativamente il modello tradizionale dell’«ospitalità di Abramo», dice innanzitutto il mistero della Trinità di Dio: un cerchio, un’unica vita manifesta il Dio che ha tre volti diversi: il volto del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. L’unità assicura la pluralità, garantisce la diversità. Il movimento che attraversa gli sguardi delle tre figure angeliche è davvero una comunione che è circolo di luce, flusso di vita, concordanza perfetta del Figlio e dello Spirito Santo verso il Padre al quale come al proprio principio è ricondotto ogni gesto (l’inclinazione del capo, la benedizione della mano, lo spostamento degli occhi): il Padre accoglie il Figlio, il Padre accoglie lo Spirito Santo, ma un’accoglienza reciproca accompagna e moltiplica all’infinito il moto iniziale. Ecco il mistero del Dio cristiano: un Dio Uno, ma che è una comunità di amore, un Dio unico ma nel quale c’è diversità dei volti, pluralità di «persone», il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo.
L’Occidente non ha questa visione contemplativa, beata; non può contemplare la Trinità fuori della storia, e quando pensa la Trinità è obbligato a pensare alla storia. È uno dei battiti forti del cuore occidentale. Qui l’arte ha anticipato la teologia. Quando Jürgen Moltmann o Johann Baptist Metz affermano, muovendo da Lutero, che la croce narra la Trinità, sembrano tradurre in linguaggio teologico quello che generazioni di pittori, dal Medioevo fino all’arte contemporanea, avevano già intuito nell’iconografia trinitaria: il Figlio è rappresentato in croce, o tra le braccia del Padre, che lo sostiene e lo abbraccia. Una Trinità che è una Pietà. E tra il Padre e il Figlio, per esprimere la relazione, l’amore, la compassione, è sospesa la colomba dello Spirito Santo: segno sì di una premura ineffabile (una tenerezza a prezzo della croce), ma anche memoria dello iato, della distanza tra il Padre e il Figlio nel momento della morte, quando il Figlio grida: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46), nell’atto di consegnare lo spirito.
Certo, l’Oriente non elude il punto culminante del dramma che si consuma tra Dio e gli uomini, ma ne contempla lo scioglimento nel mistero inenarrabile di Dio. All’altro estremo del ciclo festivo, l’icona dell’Ascensione raffigura l’umanità tutta che in Cristo è assunta in cielo, è accolta in Dio. Nella stupenda icona di Rublëv, al centro della tavola, in un cono di luce che rifulge nelle bianche vesti degli angeli, sta in piedi la figura della madre di Dio, circondata dagli apostoli; in alto, assiso in un triplice cerchio di luminosità decrescente, dal cui centro oscuro emanano i raggi d’oro che illuminano tutta l’icona, si vede il Cristo benedicente. Terra e cielo ormai comunicano, è colmato l’abisso che per il peccato separava gli uomini da Dio. Il Cristo è assunto nel seno del Padre, ma nel mistero insondabile dell’amore divino porta con sé la carne che ha assunto e resa gloriosa con la sua resurrezione: ormai sulla terra stessa risplende la sua gloria, in quell’umanità che lo contempla ascendere al cielo e che viene trasfigurata in umanità redenta, trasformata in Terra del cielo.
Se il problema di tutta la pittura, di tutta l’arte delle immagini è in profondità quello di leggere e rappresentare l’invisibile, le icone hanno questa «pretesa»: vogliono vedere l’invisibile, rappresentare il divino nel suo nascondimento, dare forma a ciò che deve rimanere ineffabile, inconoscibile, ciò che resta indicibile. L’icona obbedisce alla logica che nel quarto evangelo offre la chiave per penetrare il mistero di Gesù: «Nessuno ha mai visto Dio, ma il Figlio ce ne ha fatto un’esegesi, ce ne ha fatto il racconto» (Gv 1,18). L’icona, fondata sull’evento del Dio che si è fatto uomo, pretende di rappresentare non solo la carne di Gesù, la sua vita tra gli uomini, ma il modo stesso in cui questa carne contiene l’invisibile, contiene Dio, l’energia di trasfigurazione.
E dove rifulge il volto del Dio ineffabile, là accade la presenza: per questo l’icona accompagna la parola proclamata e l’eucaristia celebrata e con esse coopera alla manifestazione dell’immagine del Cristo Signore, all’accadimento della sua presenza. Parola, eucaristia e icona costituiscono una vera pericoresi, un’autentica danza di amore della presenza al cuore della liturgia e quindi della Chiesa. Presenza reale, efficace, presenza che parla, che nutre, che guarda. Sì, perché non è il credente a guardare l’icona, ma è il volto iconico che guarda il credente e suscita in lui l’esperienza della presenza: «Sono guardato, c’è Qualcuno davanti a me, Qualcuno che fissa lo sguardo su di me e mi ama, Qualcuno che mi chiama per nome». Presenza efficace, trasformante, anzi, trasfigurante, perché presenza che opera incessantemente e rende il cristiano conforme, somigliantissimo al Cristo da cui prende il nome.
ENZO BIANCHI
Pubblicato su: La Stampa