26 ottobre 2011
di ENZO BIANCHI
L’incontro è intitolato “Pellegrini della verità, pellegrini della pace”, mettendo così in rilievo come la ricerca della verità sia essenziale
La Stampa, 26 ottobre 2011
di ENZO BIANCHI
Nella giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo indetta da papa Benedetto XVI si possono scorgere, accanto a una sostanziale continuità con l’iniziativa di Giovanni Paolo II nel 1986, qualche accento di novità. A questa giornata, infatti, sono convocate anche personalità del mondo della cultura che non si professano religiose; inoltre, l’incontro è intitolato “Pellegrini della verità, pellegrini della pace”, mettendo così in rilievo come la ricerca della verità sia essenziale perché vi possa essere una ricerca della pace.
Quanti presumono di conoscere Benedetto XVI e lo additano sovente come “correttore” dei suoi predecessori hanno gridato al tradimento e alcuni di loro si sono persino rivolti a lui con lettere che lo invitavano a cancellare questa iniziativa. I tradizionalisti scismatici esprimono la loro condanna, e lo stesso fanno anche alcuni cattolici che temono l’evento perché lo giudicano un incoraggiamento al sincretismo o al relativismo, secondo il quale tutte le religioni si equivalgono. Così ancora una volta nella nostra chiesa, sempre più divisa e conflittuale, si profilano accuse e contrapposizioni che segnano con la diffidenza ogni iniziativa e la rendono occasione per una negazione di chi, lungi dall’avere un’altra fede, semplicemente appare con diversità di stile, di toni, di atteggiamenti pastorali, di modi di porsi nella storia e in mezzo agli uomini.
Al di là di queste reazioni anche scomposte, la volontà di Benedetto XVI di fare proprio lo spirito di Assisi conferma il cammino di dialogo voluto dal Vaticano II e mostra come la chiesa cattolica abbia la consapevolezza di una missione veramente universale: una missione, cioè, che riguarda tutti nel rispetto del cammino e delle vie religiose di ciascuno, nella convinzione che tutti gli uomini sono fratelli perché figli di un unico Padre e Creatore e che a nessuno di loro potrà mai essere estraneo il mistero pasquale di Gesù Cristo. Va anche detto che molti timori riposano su un fondamentale malinteso: si presume che il dialogo richieda di mettere da parte la propria fede e dimenticare la verità. In realtà, il dialogo implica un’autentica reciprocità, chiede di ascoltare l’altro e la sua fede con rispetto ma, nello stesso tempo, di parlare con parresía della propria fede. Il dialogo interreligioso esige che ciascuno dei due partner conosca la propria tradizione e le resti fedele, che sia un testimone della propria fede senza avere la pretesa di imporla all’altro. Il dialogo, se ben compreso, fa addirittura parte dell’evangelizzazione, perché è solo dialogando in modo autentico che si assume lo stile di Gesù, lo stile del Vangelo, quello dei discepoli inviati tra le genti.
Il cammino del dialogo è un percorso coerente con la grande tradizione della chiesa. Fin dai primi secoli i padri della chiesa, interrogandosi sulle diverse tradizioni religiose in mezzo alle quali i cristiani erano una realtà nuova e minoritaria, discernevano i seminaVerbi, cioè la presenza di “semi della parola di Dio”, di tracce dello Spirito santo, di raggi di verità. In tutte le realtà, in tutta la storia ha sempre operato la parola di Dio e insieme a essa, mai da essa dissociato, lo Spirito di Dio; con l’incarnazione, poi, è Dio stesso che si è fatto uomo, carne, e ha abitato in mezzo a noi. La Parola ha sparso i suoi semi di vita nelle culture di tutte le genti, semi che inizialmente sono nascosti ma che poi si sviluppano e appaiono nella storia, nelle diverse culture. Detto altrimenti, Cristo è la verità unica, ma raggi della sua luce si trovano in ogni essere umano, creato da Dio a sua immagine e somiglianza. Verità, queste, mai smentite, che hanno condotto Paolo VI a constatare che “le religioni … hanno insegnato a pregare a intere generazioni”, mentre Giovanni Paolo II attestava: “Noi possiamo ritenere che ogni preghiera autentica è suscitata dallo Spirito santo che è misteriosamente presente nel cuore di tutti gli uomini”.
Ma a quali condizioni è possibile convocare credenti di diversa fede e religione a pregare per la pace? Quando fu organizzato l’incontro del 1986, in risposta alle diverse contestazioni sollevate nei confronti dell’iniziativa papale si affermò con insistenza che il pellegrinaggio ad Assisi non era voluto per “pregare insieme”, ma per “stare insieme per pregare”. In tal modo si è ribadita l’impossibilità di una preghiera comune, perché questa è possibile solo tra cristiani di diverse confessioni, che riconoscono il Dio trinitario e confessano come unico salvatore Gesù Cristo. I cristiani non possono fare proprie le formulazioni di preghiera di altre religioni e, reciprocamente, gli altri non vorrebbero certo adottare le preghiere cristiane.
La preghiera, eloquenza della propria fede, ci chiede di pregare insieme come cristiani che confessano la fede espressa nel Credo apostolico; ci chiede anche di pregare insieme tra ebrei e cristiani (almeno attraverso i salmi), figli gemelli dell’Antico Testamento che confessano lo stesso Dio e attendono da lui la piena redenzione. Ci è però impedito di fare una preghiera comune e pubblica con credenti di altre religioni: l’unica cosa che è sempre possibile condividere con tutti è un silenzio adorante vissuto gli uni accanto agli altri, nella certezza che Dio vede, unisce, accoglie ciò che sale dal cuore umano come desiderio di bene e di salvezza. Dio conosce chi cerca il suo volto: lui certo vede e crea una comunione che noi non possiamo né misurare né riconoscere. Tuttavia, come ricordava Giovanni Paolo II nel discorso alla curia romana nel 1986, la coscienza e la fede ci dicono che “c’è un solo disegno divino per ogni essere umano che viene a questo mondo, un unico principio e fine”, perché “le differenze sono un elemento meno importante rispetto all’unità che invece è radicale, basilare e determinante”.
Noi cristiani crediamo che Gesù Cristo è l’unico salvatore, l’unico mediatore e l’unico Signore degli uomini, ed è proprio questa fede in lui che ci spinge verso gli uomini del mondo, delle diverse culture e religioni, con grande simpatia, con il desiderio di ascoltare ciò che brucia nel loro cuore, con il desiderio anche di imparare da loro, nel dialogo e nel confronto schietto, libero, capace di reciproca accoglienza. Non siamo degli ingenui ottimisti ma, anzi, è con fatica che cerchiamo di assumere i sentimenti, gli atteggiamenti e i pensieri di Gesù, lui che a voluto incontrare tutti: sani e malati, giusti e peccatori, ricchi e poveri, ebrei e appartenenti alle genti, persone con la fede in Dio o che non conoscevano Dio. Gesù non ha mai giudicato né condannato nessuno, si è addirittura seduto alla tavola degli impuri, dei peccatori e dei maledetti: e come potremmo noi, suoi discepoli, rifiutarci di accogliere qualcuno dei nostri fratelli e sorelle in umanità?
Sì, noi uomini e donne siamo tutti ciechi in cerca di essere guariti, zoppi che faticano ad andare avanti, balbuzienti nel parlare a Dio, spesso sordi nell’ascoltarlo. Siamo pellegrini in cerca della verità, della giustizia e della pace: tutti invochiamo e attendiamo la salvezza, quella “salvezza [che] non sta nelle religioni in quanto tali, ma è collegata con esse, nella misura in cui portano l’uomo al Bene unico, alla ricerca di Dio, alla verità e all’amore”.
ENZO BIANCHI
Pubblicato su: La Stampa