Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

I gesti e lo stile di papa Francesco

01/06/2015 00:00

ENZO BIANCHI

Riviste 2015,

I gesti e lo stile di papa Francesco

Vita Pastorale

Pubblicato su: Vita Pastorale - Giugno 2015


di ENZO BIANCHI

Sono passati oltre due anni dall’elezione di Jorge Mario Bergoglio a vescovo di Roma e sono ormai innumerevoli i gesti e le parole con cui papa Francesco caratterizza il suo ministero di successore di Pietro e di “servo dei servi di Dio”. Solo tra un paio di mesi uscirà anche la sua prima enciclica – la Lumen fidei, infatti, come ricordava lo stesso papa, era stata scritta “a quattro mani” con Benedetto XVI – ma se a discorsi e documenti ufficiali aggiungiamo la novità della divulgazione delle omelie quotidiane durante la messa a Santa Marta, abbiamo un quadro sufficientemente variegato dello “stile” di un pontificato che non cessa di sorprendere per vitalità ed energia pastorale.

 

C’è un’esortazione di san Paolo ai cristiani di Colossi che evidenzia l’importanza del “come” avviene l’annuncio del Vangelo: “Rivestitevi di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza” (Col 3,12). Vuole indicare lo stile con cui il Vangelo può raggiungere le “periferie esistenziali”, lo stile da assumere nel vivere il Vangelo della carità, lo stile dell’agire quotidiano del cristiano: uno stile di profonda relazione, stile di empatia, di vicinanza… Gesù stesso, del resto, ha molto insistito su questo aspetto: come appare dai suoi invii in missione (cf. Mc 6,7-13 e par.; Lc 10,1-16), il Signore ha precisato lo stile del discepolo e si è dilungato nel tratteggiarne i caratteri, molto più di quanto non abbia insistito sull’oggetto della buona notizia. Questo perché il Vangelo non è tale solo per il contenuto, ma deve essere annunciato con uno stile adeguato, coerente con il messaggio stesso. L’azione evangelizzatrice non può limitarsi a riaffermare alcune verità di fede, così come la dimensione caritativa non può essere solo un fare il bene: annuncio e messa in pratica devono avvenire con modalità che mostrino sempre la carità di Dio.

 

Ora, un aspetto dello stile di papa Francesco che ha colpito molti fin dall’inizio del suo ministero è stato il suo continuare a vivere come prima: come vescovo, ogni giorno dà spazio alla preghiera e all’ascolto della Parola di Dio, grazie anche alla sua disciplina di gesuita che gli ha insegnato a ordinare il tempo; come vescovo, ogni giorno nella celebrazione eucaristica in mezzo al popolo di Dio, spezza con semplicità il pane della Parola; come vescovo, ogni giorno accoglie, abbraccia, ascolta quelli dei quali ha la responsabilità di pastore; come vescovo ogni giorno “governa”, consultandosi e quindi prendendo decisioni affinché la chiesa cammini “sulle tracce del suo Signore” (cf. 1Pt 2,21) e sia in mezzo agli uomini e alle donne a loro servizio, curvandosi e non curvando gli altri, ammonendo ma non disprezzando, richiamando ma non condannando.

 

Con un po’ di esagerazione potremmo dire che con papa Francesco è cambiato più lo stile della vita ecclesiale di quanto non sia cambiato quello dell’arcivescovo Bergoglio. È un uomo, un cristiano, un pastore che il poco tempo che riesce a trovare per sé lo dedica all’“abitare con se stesso” al ritrovare in sé la voce del Signore. Proprio in questo non mutamento della vita quotidiana va rinvenuto un tratto distintivo del pontificato di Francesco. Il vescovo di Roma vuole stare e sta “in medio ecclesiae”: nessuna separazione, nessuna possibilità di creare l’icona del papa “solo con Dio”, nessuna esenzione dalla prossimità che il pastore deve avere con le sue pecore. Come dice il linguaggio pregnante della liturgia, papa Francesco sta “in medio ecclesiae”, in primo luogo in mezzo alla chiesa di Roma di cui è vescovo, e quindi in mezzo al popolo di Dio, in mezzo alla gente, in mezzo ai fratelli e alle sorelle in umanità.

 

A cominciare dall’omelia tenuta in occasione della sua prima messa crismale del giovedì santo, ha chiesto ai presbiteri di stare talmente vicini agli uomini e alle donne dei quali sono responsabili come pastori davanti a Dio, da portare su di sé “l’odore delle pecore”, usando un’espressione di ispirazione patristica medievale ripetuta poi a più riprese: è un’immagine che può apparire un po’ rozza, ma che ben esprime bene la volontà del papa e il suo desiderio di “prossimità” a tutti gli “uomini di buona volontà”, questa povera umanità verso la quale Dio stesso si è abbassato in Cristo fino a lavare i piedi perché commosso fin nelle viscere dalla miseria umana e dalla condizione di gente che spesso non sa quel che fa.

 

Si spiega così anche quel gesto – dirompente all’inizio ma a cui ora ci stiamo abituando – di restare ad abitare a Santa Marta. L’appartamento, il “palazzo” non possono essere la dimora di papa Francesco: non è una questione di povertà e neppure una volontà di mostrarsi singolare, ma di coerenza e di autenticità rispetto al suo “stile” di vita. Come egli non ha mai saputo abitare i palazzi, così non li abita ora, temendo che questi possano diventare un diaframma rispetto alla realtà quotidiana vissuta dagli altri. Tornano alla mente le parole che papa Francesco rivolse due anni fa agli studenti delle scuole dei gesuiti in Italia: “Io ho necessità di vivere fra la gente, e se io vivessi solo, … non mi farebbe bene … È la mia personalità … Non vado ad abitare nell’appartamento pontificio per motivi psichiatrici”.

 

Questo stare in mezzo alle pecore, a volte addirittura – come ripete ogni tanto papa Francesco – il mettersi “dietro al gregge” per seguirne da pastore l’intuito, il sensus fidei che le indirizza verso pascoli di vita, aiuta anche ad acquisire un nuovo sguardo sulla chiesa. Sovente infatti abbiamo su di essa uno sguardo che non è quello di Gesù: vediamo la chiesa come comunità di salvati, insieme di eletti, come realtà in cui ci sono “giusti” distinti da ingiusti e peccatori, ravvisabili sempre negli altri fuori dalla chiesa, quando non addirittura chiamati e giudicati nemici della chiesa. Lo sguardo di Gesù, invece, vede la chiesa, sua sposa amata, come una comunità di peccatori sempre da lui perdonati nel dono del calice, una comunità che non ha consistenza in se stessa ma solo nella fede in Cristo.

 

Così anche la scelta delle mete dei primi viaggi in Italia e in Europa appare consona a uno stile ben preciso: Lampedusa e l’Albania non sono luoghi scelti a caso, né tanto meno in virtù del loro “contare” nella chiesa e nel mondo, bensì per il loro essere periferie dove pulsano contraddizioni e tragedie del nostro tempo, ma anche terre dove si affacciano rinascite e nuove assunzioni di responsabilità. Di fronte al lembo di terra più meridionale d’Italia l’umanità affonda nel mare della nostra indifferenza, ma il generoso prodigarsi di isolani e marinai riscatta il mondo intero perché, come ripetono concordi il Talmud e il Corano, “chi salva una sola vita, salva l’intera umanità”. In Albania le diverse religioni, accomunate per decenni dall’ostracismo e la persecuzione, si ritrovano ora nel dialogo e nella solidarietà, riscoprendo antiche e comuni radici di tolleranza e di convivenza fraterna.

 

E che dire dei gesti, delle parole e delle decisioni con cui papa Francesco ha impresso uno stile diverso al sinodo dei vescovi, trasformando assemblee percepite come estranee al tessuto ecclesiale quotidiano in opportunità per un dialogo permanente tra i vescovi e le loro chiese locali, tra “cuore” e “periferia” della comunità dei discepoli del Signore? È un dialogo i cui frutti si colgono già nell’esortazione post-sinodale Evangelii gaudium che presenta sì sì echi delle proposizioni del precedente sinodo sulla nuova evangelizzazione, ma il cui stile si discosta dal genere letterario consueto, e i contenuti rispondono soprattutto alla visione di papa Francesco, alla sua lettura dell’attuale situazione della chiesa nel mondo, al suo programma di ministero petrino, alla sua sollecitudine di pastore. I temi affrontati sono molti e il linguaggio e il pensiero sono quelli già enunciati in molte occasioni o rinvenibili nel suo magistero di arcivescovo di una chiesa giovane, appartenente al mondo periferico e lontano rispetto all’antica cristianità europea. Non a caso il vescovo di Roma sembra porre anche dei limiti alla sua esortazione: è rivolta a tutta la chiesa, ma non ambisce a dire tutto, né pretende di essere esaustiva. La voce del papa non esaurisce quelle dei vescovi né le copre, favorendo così un principio di decentralizzazione che instaura la possibile sussidiarietà ecclesiale in virtù della quale molti compiti possono essere svolti dai vescovi e non devono essere riservati al pontefice e alla curia romana che lo assiste.

 

Davvero possiamo dire che lo stile rinnovato di papa Francesco riesce a tirar fuori dal tesoro della Scrittura e della tradizione della Chiesa “cose nuove e cose antiche”, manifestando in tutto il suo splendore la buona notizia della misericordia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo. È a questo annuncio gioioso che mira anche l’indizione a sorpresa di un giubileo straordinario della misericordia, posto come suggello alla seconda assemblea del sinodo dei vescovi, quasi a dilatare alla misura del cuore di Dio gli orientamenti dei pastori delle Chiese di tutti i continenti.

 

Se infatti, secondo le sue stesse parole, il vescovo di Roma proviene della “fine del mondo”, in realtà chi conosce davvero la tradizione della Chiesa percepisce che papa Francesco proviene dal profondo delle “interiora ecclesiae”: a chi legge in superficie la storia della Chiesa può apparire che questa affronti talora svolte inedite, ma in realtà le sue “interiora”, le sue fondamenta nascoste nel seno del Padre sono ieri, oggi e domani quelle di Gesù Cristo stesso.