Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Stare a tavola, ecco le buone regole

01/12/2010 00:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2010,

Stare a tavola, ecco le buone regole

Avvenire

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1 dicembre 2010

di ENZO BIANCHI

La tavola è il luogo della fiducia nell’altro, dello sperare insieme qualcosa di comune per il futuro, dell’amore nello scegliere, preparare, offrire e servire il cibo agli altri

 

Il libro: Un viaggio nel tempo per ritrovare il senso della storia e della memoria I giorni degli aromi. I giorni del focolare. I giorni del presepe. I giorni della memoria. Luoghi e tempi che attraversano gli anni, segnano il ritmo delle nostre gioie e dei nostri incontri per diventare l’intera vita. Ogni cosa alla sua stagione, il titolo del libro di Enzo Bianchi (foto sotto) che esce domani in libreria per i tipi di Einaudi (pagine 132, euro 17) e che fa seguito al grande successo avuto da «Il pa­ne di ieri» (2008), è un detto proverbiale che il mo­naco e priore di Bose immagina nello scandirsi del­la vita dell’uomo di oggi. Le quiete ore del ricordo e della meditazione, i pranzi consumati insieme, gli istanti dell’amicizia che scalda il cuore. «Quest’an­no ho piantato un viale di tigli, li ho piantati per ren­dere più bella la terra che lascerò, li ho piantati per­ché altri si sentano inebriati dal loro profumo, co­me lo sono stato io da quello degli alberi piantati da chi mi ha preceduto», scrive Bianchi. Come l’albero misura il passare del tempo col suo tronco che di anno in anno aumenta di un cerchio, così anche la riflessione di Bianchi mantiene quel­lo sguardo della compassione che conosce il cuore umano e sa che anche la nostra esistenza è un cer­chio che ripete se stesso ma si allarga per riconoscere «la vita continua e sono gli uomini e le donne che si susseguono nelle generazioni, pur con tutti i loro errori, a dar senso alla terra, a dar senso alle nostre vite, a renderle degne di essere vissute fino in fon­do ». Dal volume pubblichiamo in antepri­ma il capitolo sul significato di stare a tavola insieme, un gesto che più di ogni altro se­gna il confine della nostra umanizzazione.

 

Di tutto il mobilio che arreda una casa, la tavola è forse l’elemento più eloquente. La sua grandezza, in particolare, dice molto dei padroni di casa: se sono una famiglia piccola o numerosa, se per loro la tavola è semplicemente un luogo su cui consumare il cibo oppure uno spazio per stare tutti in­sieme anche con gli ospiti. Che tri­stezza una tavola piccola, alla quale non si possono invitare «gli altri», u­na tavola stretta, magari addirittura «a scomparsa». Ricordo che un tem­po la tavola era un mobile di cui es­sere orgogliosi: in legno massiccio, collocata come regina al centro del­la cucina, attirava subito lo sguardo di chi entrava. Le sue gambe solide e mai traballanti, modellate al tor­nio oppure squadrate, colpivano l’attenzione, al pari del suo piano, sempre in vista, che fosse di marmo o di legno nobile come il ciliegio o il noce, mai avvilito da una squallida cerata, anzi spesso adornato da po­chi, semplici, oggetti quotidiani che lo riportavano con gusto alla sua es­senza di fulcro di convivialità: un cesto di frutta, una pagnotta e un orcio d’olio, una composizione di zucche ornamentali...

 

Tutto questo, certo, prima che agli inizi degli anni Sessanta irrompesse la praticissima iattura dei ripiani in formica. Av­venne allora un’autentica rivoluzio­ne: tutti si affrettarono a mettere in cantina o a vendere per pochi spic­cioli i vecchi tavoli di solenne auste­rità per introdurre esili tavoli come rattrappiti, colorati con tona­lità assurde. Certo, i nuovi oggetti erano lavabili, non richiedevano più la tovaglia, ma nel contempo smarrivano la loro identità e il loro significato, a volte cedeva­no anche la so­lenne e regale collocazione al centro della stan­za, magari per far posto al vuoto che consentisse di fissare lo sguardo verso il nuovo idolo, la televisione. Subii a malincuore quel mutamen­to anche a casa mia, ma con la netta percezione di assistere a qualcosa che aveva a che fare con la barbarie, con il venir meno del senso dello stare a tavola. Ed è quanto purtrop­po avvenne... Eppure la tavola è il luogo attorno al quale si consuma un rito proprio, fra tutti gli animali, solo all’essere umano: quello di mangiare insieme e non in compe­tizione con i propri simili.

 

E, man­giando, parlare insieme: la tavola è il luogo privilegiato per la parola scambiata, per il dialogo: si comu­nica attraverso il cibo che si mangia e attraverso le parole che si scam­biano. Mentre uno parla, gli altri mangiano e ascoltano, poi i ruoli si invertono quasi spontaneamente: chi tace smette di mangiare e inizia a parlare e chi ascolta riprende a mangiare. Forse, anche a questo serviva l’ingiunzione di «non parla­re a bocca piena». N essuna idealizzazione però in questa intima connessione tra il mangiare e il parlare: quando ci si siede a tavola, mescolato al desiderio e al bisogno di mangiare, c’è anche un sentimento di aggressività verso l’altro; oppure c’è il mutismo ostile che trasforma lo stare insieme in fastidio reciproco. Occorre disciplina, consapevolezza dell’aggressività che ci abita: si tratta di evitare di parlare spinti da ciò che emotivamente ci domina, di vigilare sull’umanizzazione del nostro rapporto con il cibo e con la parola. Non a caso la sapienza monastica prescrive di iniziare i pasti in silenzio, dopo una preghiera di benedizione e ringraziamento. È un atteggiamento che andrebbe ripreso anche fuori da un contesto religioso, trovando adeguate modalità per porre una distanza tra sé e il cibo, per prendere coscienza di non essere i soli o i «primi» attorno a quella tavola e, di conseguenza, vigilare sulle parole che escono dalle nostre labbra. Se è degna di tal nome, la tavola la si accende quando ci sono invitati. Invitare qualcuno – parenti, amici, conoscenti... – è un atto di grande fede, di profonda fiducia nell’altro: significa infatti chiamarlo, eleggerlo, distinguerlo tra gli altri conoscenti; significa confessare il desiderio di stare insieme, di ascoltarsi, di conoscersi maggiormente.

 

Chi non pratica questa ospitalità vive in angustie, vive «poco», mi verrebbe da dire. Non conosce la gioia che è maggiore nell’invitare che nell’essere invitati. Occorrerebbe saper invitare senza mai pensare alla reciprocità: l’atto in sé è ricompensa. Non è un caso che anche nel Vangelo, uno degli insegnamenti di Gesù che ridimensiona l’assoluto della reciprocità – oggi tanto di moda quando ci fa comodo – riguarda proprio l’invito a tavola: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio». Poter dire in verità «la mia casa è aperta, la mia tavola non è solo per me e per i miei» significa aprirsi agli altri, dar loro fiducia, disporsi a lasciarsi arricchire dalla loro presenza, a nutrirsi di sapienza e di amicizia, a veder dischiudersi nuovi orizzonti. Non si tratta di fare della propria tavola un «salotto» che esibisca lo status raggiunto, bensì di saper vivere la fraternità, lo stare insieme, l’amicizia gratuita. Q uando c’è un ospite a tavola cresce la capacità di benedizione e di gratitudine, così che quando giunge il momento dei saluti alla fine del pasto ci si apre a una promessa orientata al futuro: ci sarà ancora un domani per ritrovarci, avremo ancora nuove possibilità di incontro... Chi mi ha educato mi diceva sempre che è la tavola il luogo in cui ci esercitiamo a vivere la fede, la speranza, l’amore.

 

La tavola è il luogo della fiducia nell’altro, dello sperare insieme qualcosa di comune per il futuro, dell’amore nello scegliere, preparare, offrire e servire il cibo agli altri. In questa scuola di umanizzazione tre elementi legano il pasto dall’inizio alla fine: il pane, le bevande e la parola. Ma è la parola che costituisce il legame più profondo fra tutti gli attori del pasto: è la parola che narra gli alimenti diversi che giungono in tavola, è la parola che unisce i presenti e gli assenti, i commensali e gli altri, è la parola che mette in relazione il passato con il presente, aprendoli al futuro. La parola a tavola può essere davvero strumento di comunione, mezzo privilegiato per conferire senso al pasto, per valorizzare il gusto degli alimenti, per suscitare l’arte dell’incontro. Stare a tavola insieme è un linguaggio universale tra i più determinanti e decisivi per l’umanizzazione di iascuno di noi. A tavola, piccoli e grandi, vecchi e giovani, genitori e figli, siamo tutti commensali, tutti con lo stesso diritto di parola e con lo stesso diritto al cibo che arricchisce la tavola. Davvero stare a tavola è molto più che saper nutrirsi: è saper vivere.

ENZO BIANCHI

 

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