Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

La tavola, che luogo magico

20/10/2010 01:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2010,

La tavola, che luogo magico

La Stampa

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Speciale 20 ottobre 2010

di ENZO BIANCHI

In questi stessi giorni, che da tempi antichissimi segnano nelle nostre regioni la riconciliazione della natura con l’uomo che la abita, una tradizione molto più recente ha voluto che a Torino

 

La Stampa – Speciale 20 ottobre 2010

 

In questa stagione la collina dove vivo si riveste dei suoi colori più affascinanti, abbellendosi per il gran finale dell’annata: le foglie, prima di cadere, si incendiano in tutte le sfumature, dal giallo tenue al rosso intenso, e paiono fiamme che si rincorrono sulle cime degli alberi; il pergolato di uva moscato d’Amburgo, che mi fa ombra da quando sono giunto in questo luogo, ha pronti i succosi grappoli che addolciranno le giornate fino a Natale; i funghi si fanno più radi ma più carichi di profumi e di gusto, mentre i fichi hanno appena chiesto di arricchire la mostarda prima che il loro sapore scivoli via con la pioggia autunnale. In questi stessi giorni, che da tempi antichissimi segnano nelle nostre regioni la riconciliazione della natura con l’uomo che la abita, una tradizione molto più recente ha voluto che a Torino si celebrasse il gusto, attraverso un “salone” ad esso dedicato.

 

Come tutte le iniziative di questo tipo, anche il radunare produttori, fruitori e appassionati dei prodotti alimentari di tutto il mondo e delle trasformazioni culinarie di cui ogni cultura si è resa interprete, presenta il rischio di essere semplicemente una kermesse più colorata e profumata, una geniale reinterpretazione del mercato nel senso più antico del termine, o anche un’ulteriore occasione di consumismo nobilitato dalla dimensione culturale che il cibo racchiude in sé. Ma assieme al rischio di aggiungere carne al fuoco di un attivismo commerciale che tutto consuma e poco o niente valorizza, vi sono anche le ricche potenzialità che un incontro di palati e culture può destare, non solo in partecipanti e visitatori, ma anche nella società civile nel suo complesso. 

 

Sì, perché il cibo è cultura, esprime la capacità che l’essere umano – unico tra gli animali – ha mostrato nel corso dei millenni di trasformare il crudo in cotto, di domare il fuoco per trasfigurare gli alimenti, di imbandire una tavola affinché il nutrirsi sia luogo di incontro e non di rivalità selvaggia. Noi uomini mangiamo insieme, non gli uni contro gli altri: siamo commensali, seduti attorno alla stessa tavola che nutre tutti i presenti. E sono proprio i cibi e le bevande più antichi e più semplici ad esprimere l’augusta nobiltà che le mani, il cuore e la mente dell’uomo han saputo infondervi, aggiungendo significati e gusti sempre nuovi a valori antichi quanto il fuoco. Oggi purtroppo assistiamo anche a ricadute nella barbarie che fanno perno sul cibo: vi è chi vorrebbe usare le diverse tradizioni culinarie come armi contundenti contro il diverso: così la polenta – antico e nobile cibo che, condiviso, esprimeva la dignità dei poveri – viene usata come alimento identitario fino a disprezzarne la natura in forme orgiastiche di consumazione, magari contrapponendola al cous-cous, alimento base dei nuovi poveri giunti fra noi; così si assiste a menu concepiti per ostentare disprezzo verso chi non li conosce o a sceneggiate in cui perfino l’atto umanissimo del nutrirsi insieme diventa sfida all’altro che si vuole escludere dal proprio orizzonte. Eppure, non vi è realtà quotidiana che esprima meglio del cibo l’intrecciarsi di storie, tradizioni, patrimoni di popoli e genti: nel corso della storia, e ben prima dell’irrompere dei frutti esotici sulle nostre tavole, han viaggiato di più la patata e il pomodoro, il riso e la melanzana, le acciughe e la vite, il pepe e il cacao che non mercanti, esploratori, missionari e pellegrini che hanno percorso i cinque continenti.

 

Imparare a “gustare” il cibo è allora operazione insieme semplice e raffinata, richiesta dalla natura ed educata dalla cultura, è nobilitazione della nostra dimensione umana: non a caso “sapore” e “sapere” hanno la stessa radice, conoscere e gustare si accompagnano nella nostra crescita e maturità; non a caso uno dei luoghi in cui la parola può divenire superflua per esprimere sentimenti e passioni è proprio la tavola, quel luogo magico dove i nostri sensi – dalla vista all’odorato, dal tatto all’udito, fino al gusto, signore delle mense – vengono stimolati e il nostro corpo conosce una trasfigurazione simile a quella che è capace di imprimere agli alimenti che cucina. Perché noi siamo sì quello che mangiamo, così come lo sono gli animali, ma l’arte di cucinare che ci è propria ed esclusiva mostra che il nostro appetito è infinito perché non appartiene al corpo ma allo spirito che ci anima.

Enzo Bianchi

 

Pubblicato su: La Stampa