15 agosto 2010
di ENZO BIANCHI
Metà agosto per la campagna segna la fine della stagione calda perché dopo il primo temporale di quei giorni, il calore estivo cede il posto al fresco di sera
La Stampa, 15 agosto 2010
Quelle fiamme un po’ mi mancano: fiamme insolite, slegate dall’esigenza di scaldare o di cucinare, estranee all’atmosfera domestica del camino, eppure così familiari... Sono i falò, fuochi che si accendevano per rendere festoso l’inizio e la fine dell’estate, nelle notti delle vigilie di san Giovanni Battista, il 24 giugno, e della “Madonna d’agosto”, cioè l’Assunta – ma la proclamazione del dogma era ancora troppo recente per aver modificato il linguaggio, così la gente continuava a chiamare la festa con il nome del mese accostato a quello della Madonna. Metà agosto per la campagna segna la fine della stagione calda perché dopo il primo temporale di quei giorni, il calore estivo cede il posto al fresco di sera, di notte e al mattino, quando fanno la loro comparsa anche le prime nebbioline dell’alba.
Chissà perché si facevano quei fuochi sulle colline, in luoghi gerbidi, raccogliendo i rami secchi dalle ripe o anche le fascine di tralci della vite lasciati a seccare ai bordi della vigna fin dalla potatura di febbraio. Alcuni dicevano che erano fuochi per “far venire la pioggia”, altri sostenevano che fecondassero la terra: sta di fatto che si sentiva come un dovere il farli e per qualcuno era il modo di festeggiare Giovanni il Battista e la Madonna d’Agosto. Qualche anno fa ho ritrovato, in un rituale medievale, una preghiera per la benedizione del fuoco nella notte di san Giovanni Battista, a riprova di quanto la tradizione avesse radici antiche: “Tu sei benedetto, Dio onnipotente, creatore della luce, che con il fuoco hai guidato il tuo popolo nel deserto verso la Terra promessa... Benedici questo falò acceso in onore di san Giovanni Battista... Accendi nei nostri cuori il fuoco del tuo amore e fallo ardere ”.
Era comunque una consuetudine buona, grazie alla quale le colline si accendevano e le fiamme si alzavano sprigionando una cascata di scintille, che si sperava non andassero a morire in qualche fienile... Io la percepivo come una festa della gratuità nel rapporto con la terra. Come i bambini a Natale per il presepe domestico e i lumi, in estate eravamo noi ragazzi un po’ più grandi i protagonisti dei preparativi per i falò: ci accordavamo sul luogo in cui farlo, sui rami secchi da portare e su come disporli, su cosa prendere con noi da casa per goderci la serata attorno al falò che, naturalmente avrebbe dovuto essere tale da suscitare l’invidia nei coetanei che avevano predisposto quelli sulle altre colline e bricchi. Non c’erano ancora i mangiadischi o altre trovate per allietare le notti di festa, ma mi sembra di rivivere ancora adesso i momenti di gioia serena nello starcene sdraiati sull’erba, accanto alla fiamma del falò, a guardare il cielo e le stelle, raccontandoci l’un l’altro ciò che ci bruciava nel cuore. Intanto si beveva e si mangiava qualcosa tirato fuori dalle preziose amburnìe, i vasi di conserve che avevamo portato da casa. In quei discorsi si parlava di ragazze, si ragionava su cosa si sarebbe voluto fare da grandi – e sovente desideri e progetti mutavano come la forma delle nuvole in cielo – ci si lamentava della famiglia, si abbozzavano previsioni per l’imminente stagione dei tartufi... Allora non parlavamo neanche di sport, salvo qualche accenno al pallone elastico, questo gioco tipicamente locale che al sabato pomeriggio e alla domenica sera riuniva la gente del paese per assistere alle partite e avere un momento per stare insieme in allegria.
Il falò continuava ad ardere e tra noi dicevamo che quando la fiamma bruciava con maggiore intensità sarebbe accaduto davvero quello che uno stava dicendo o augurandosi: auspici da quattro soldi, certo, cui non credevamo troppo neanche noi, ma che bastavano a strapparci un sorriso e a farci sperare in un domani migliore. Tiravamo tardi così, osservando il fuoco affievolirsi sempre più, fino a che, verso l’una o le due, tornavamo a casa per dormire, lasciando la brace a dialogare con le stelle.
Ma anche questa tradizione di veglia così semplice e intensa stava per tramontare: ricordo quando, ancora adolescente, vidi per la Madonna d’agosto dei preparativi fino ad allora sconosciuti dalle nostre parti: qualcuno aveva pensato di portare in paese il “ballo a palchetto”, quella struttura mobile in legno che, montata in piazza per una settimana, allettava ragazzi e ragazze con la possibilità di ballare. Era la grande novità e, assieme al palco per il ballo, ecco apparire i banchetti dei venditori di torrone, di pateche – così chiamavamo le angurie, per evidente influsso francese sul dialetto – e di gelati. Al mio paese, un tal Livé, che aveva fatto la guerra di Abissinia, si era procurato un proiettore con cui agli inizi degli anni ‘50 aveva cominciato a dare dei film in un garage vicino al bar che gestiva con la moglie e i suoi figli. Già questo era stato di grande turbamento per il paese e soprattutto per il parroco, che doveva ormai riconoscere la presenza, e il successo, di altre iniziative sociali al di fuori di quelle della chiesa. Senza contare che a volte si proiettavano anche film vietati ai minori... immancabile allora il cartello in fondo alla chiesa che ammoniva perentorio: “film sconsigliato!”, “pellicola proibita!”. Non soddisfatto, Livé pensò più tardi di creare anche una pista da ballo permanente, in cemento, accanto al bar,dotato di un jukebox... Al parroco sembrò la fine: si sarebbe sempre potuto ballare al ritmo di musica e canzoni “americane”... Era un affronto alla chiesa, un attentato alla morale e alle tradizioni! Il parroco cercò in tutti i modi di ostacolare il progetto: Livé e il prete diventarono “nemici” e l’intero paese guardava tra il preoccupato e il divertito quella “guerra” per la gestione del tempo e dei valori da trasmettere ai giovani. Naturalmente, la pista da ballo venne realizzata e i ragazzi ogni sera erano là... altro che il ballo a palchetto per quattro giorni all’anno!
Il parroco tuonava inutilmente, dal pulpito reale e da tutti quelli metaforici, cercando di opporre resistenza al “nuovo” che invadeva la vita del paese. Fu tutto inutile: le canzoni americane risuonavano allegre, i giovani le cantavano senza neanche conoscere una parola di inglese, il ballo era sempre più un’occasione per avvicinare i corpi. Il buon prete attivò anche una sorta di concorrenza da opporre alla “balera”: un grande televisore installato nella sala parrocchiale, ma chi andava a vederlo, visto che molte famiglie cominciavano a procurarsene uno loro?
Arrivavano i nuovi tempi e il parroco non si raccapezzava davvero più. Ripeteva sconsolato: “Per noi è finita!”, misurando la diminuzione di gente che andava in chiesa alla domenica, l’assottigliarsi delle presenze a messa persino tra le ragazze e le donne... Ma credo che l’amarezza maggiore gli venisse dal non capire più il cambiamento non tanto dei tempi, ma piuttosto della “sua” gente, quelle persone a cui era davvero affezionato e che conosceva così bene, fin dalla loro infanzia. Era preoccupato non perché stava perdendo il suo “potere”, ma perché temeva che si stessero perdendo uomini e donne cui continuava a voler bene come un padre. Di lì a poco il concilio si sarebbe fatto carico anche di quelle preoccupazioni, aprendo nuove vie per annunciare il Vangelo che non cambia in un mondo che stava cambiando a una velocità un tempo impensabile.
Di quello sforzo di autenticità evangelica, della straordinaria primavera dello Spirito che fu il Vaticano II sarei stato testimone consapevole, al momento però per me ci fu un trauma molto più ordinario, quello di non riuscire più a trovare quattro-cinque amici del paese per preparare il falò: ormai quelle fiamme nella notte non attiravano più nessuno. Andai ancora qualche volta ai falò da solo, poi quelle notti di incanto si spensero anche per me, assieme agli ultimi bagliori di una brace che non riscaldava più i cuori.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Stampa