14 maggio 2010
di ENZO BIANCHI
Cristiani e non cristiani, dobbiamo ripensare alle categorie della cittadinanza, della stranierità, dell’ospitalità
La Stampa – Torino Sette – 14 maggio 2010
Parlare di stranieri e di alterità in una manifestazione dedicata alla memoria fornisce un’occasione per riflettere su un nesso costitutivo della nostra identità: ricordare, infatti, non è volgersi con nostalgia, rimpianto o soddisfazione a un tempo che più non ritorna, bensì riandare alle persone e agli eventi che ci hanno preceduto per riscoprire da dove veniamo e, quindi, avere elementi di discernimento per orientare il presente e il futuro del nostro cammino. Fare memoria di cosa ha significato l’emigrazione per le generazioni italiane ed europee negli ultimi cento cinquant’anni consente uno sguardo più partecipe e solidale al fenomeno immigratorio cui assistiamo negli ultimi decenni in Italia: ricordare che gli stranieri incapaci di integrarsi eravamo noi, che l’altro da criminalizzare erano i nostri progenitori non serve certo a risolvere né i problemi sociali da cui l’immigrazione nasce né quelli che suscita nelle società dove si installa, ma consente di vedere le cose anche con gli occhi dell’altro e di acquisire così una migliore e più equa capacità di giudizio.
Senza contare che, per chiunque si rifaccia anche solo culturalmente alla tradizione biblica, l’ “essere straniero” è condizione costitutiva del credente: “Ricordati che eri straniero” è il richiamo costante che percorre l’intera legislazione dell’Antico Testamento, tesa a normare nella giustizia e nella solidarietà la vita quotidiana del popolo d’Israele una volta entrato nella “sua” terra promessa. La memoria della passata condizione di schiavitù è fondamento per la salvaguardia e l’osservanza della legge da parte di uomini e donne liberi. I cristiani a loro volta non dovrebbero dimenticare che al suo apparire nel mondo greco e romano la loro fede dovette superare la diffidenza, l’ostilità e addirittura la persecuzione da parte della cultura dominante che non ne tollerava la “differenza”, il modo diverso di porsi non tanto rispetto alla propria matrice ebraica, quanto nei confronti di una religiosità pagana disposta ad accettare e assimilare qualsiasi divinità che non pretendesse l’esclusività. I cristiani eviterebbero così di giudicare con sufficienza o disprezzo gli “stranieri”, giudicandoli incapaci di integrarsi nelle nostre società e culture: nel Nuovo Testamento, l’espressione “stranieri e pellegrini” (Prima lettera di Pietro 2,11) caratterizzava proprio loro, così estranei e “differenti” rispetto alla mentalità circostante.
È comunque indubbio che, cristiani e non cristiani, dobbiamo ripensare alle categorie della cittadinanza, della stranierità, dell’ospitalità, non come mero esercizio dialettico o come astratti sistemi giuridici, ma come riflessione sul senso della nostra convivenza civile, sull’orizzonte che vogliamo dischiudere alla nostra società, sulla qualità della nostra vita e di quella delle generazioni a venire. E per questa difficile ma appassionante fatica etica e culturale, la memoria rimane esercizio e strumento di rara efficacia e fecondità.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Stampa