Pubblicato su: Famiglia cristiana, 14 aprile 2013
di ENZO BIANCHI
Le distrazioni non tolgono efficacia alla preghiera, perché essa resta un atto di amore fatto con gratuità. Certamente occorre lottare contro di esse, ma senza farne un’ossessione: occorre saperle integrare nella preghiera, “gettarle in Dio” (cf. 1Pt 5,7), cioè trasformarle in occasioni di preghiera.
Quali sono le difficoltà della preghiera?
La distrazione è la difficoltà abituale della nostra preghiera. Essa distoglie dall’attenzione a Dio, e può anche rivelare ciò a cui siamo attaccati. Il nostro cuore allora deve tornare umilmente al Signore. La preghiera è spesso insidiata dall’aridità, il cui superamento permette nella fede di aderire al Signore anche senza una consolazione sensibile. L’accidia è una forma di pigrizia spirituale dovuta al rilassamento della vigilanza e alla mancata custodia del cuore.
(Compendio del Catechismo n. 573)
Avere distrazioni fa parte della psiche umana e ci vuole molto esercizio per imparare a concentrarsi unificando la mente, il cuore e il corpo. È normale che anche durante la preghiera sorgano distrazioni: le preoccupazioni, gli echi della vita quotidiana, così come le molte presenze che abitano nelle nostre profondità, emergono e si manifestano con forza non appena si entra nella solitudine e nel silenzio necessari alla preghiera.
Pregando, è inevitabile che si incontrino distrazioni, ma esse non possono essere una scusa per non pregare: le distrazioni non tolgono efficacia alla preghiera, perché essa resta un atto di amore fatto con gratuità. Certamente occorre lottare contro di esse, ma senza farne un’ossessione: occorre saperle integrare nella preghiera, “gettarle in Dio” (cf. 1Pt 5,7), cioè trasformarle in occasioni di preghiera. Si tratta spesso di capovolgere le distrazioni in occasioni di preghiera: questa ci perderà in unità, ma ne beneficerà in ricchezza.
Quanto alla difficoltà che siamo soliti definire “aridità del cuore”, anch’essa non deve stupire: tutti conoscono periodi in cui, per diverse ragioni, non si riesce più a pregare e ci si avvilisce fino a ritenere impossibile la preghiera. Ora, la preghiera non è isolata dalla vita concreta, ma resta sempre l’eloquenza di una relazione tra due esseri viventi: Dio e colui che prega. Conosce dunque tempeste e bonacce: nella vita di preghiera nulla è guadagnato definitivamente e nulla è perso per sempre. Occorrono molta pazienza con se stessi e molta disciplina per non cedere a facili idoli: ricorrere a Dio solo nel bisogno, dialogare con lui solo quando si è nell’angoscia, tenere presente Dio solo quando si vive una situazione poetica o estetica particolarmente ispirata…
Il cristiano non può essere “l’uomo di un momento, senza radice in sé” (Mt 13,21); egli deve sottrarsi al mito del “fare esperienza”, del tutto a breve termine, per tendere invece a radicarsi in una storia con il Signore, capace di durare nel tempo. Prima o poi capita a ciascuno di noi di avvertire nella preghiera una contraddizione tra la propria volontà e quella di Dio: sono i tempi in cui Dio sembra lontano e non si vede più con chiarezza il suo volto amoroso. La preghiera diventa una prova, e quanto più uno prega tanto più si scatenano i “nemici”, quelle forze ostili a Dio che abitano le profondità del cuore non ancora evangelizzate. In queste circostanze bisogna resistere alla tentazione di disertare la preghiera, di vagare qua e là in preda all’accidia; occorre invece continuare a perseverare, a offrire la presenza del proprio corpo atono e ribelle alla fatica della preghiera. L’importante – ci ha insegnato Gesù – è non stancarsi di pregare (cf. Lc 18,1).