9 agosto 2009
di ENZO BIANCHI
La liturgia e la vita comune come luoghi di una costante memoria del Vangelo. È questo il “cuore monastico” del santuario di Montserrat
Avvenire, 9 agosto 2009
Oltre quarant’anni fa ero un giovane studente di economia, profondamente convinto della mia fede, intenzionato a impegnarmi in politica da cristiano, attento al nuovo soffio che spirava dal Vaticano II. Decisi di recarmi in pellegrinaggio a Montserrat, un santuario di cui avevo sentito tanto parlare, anche come oasi di libertà sotto il regime franchista. E fu in quella chiesa – che oltre all’immagine venerata della Vergine di Montserrat contiene anche la spada lasciata come voto da Ignazio di Loyola, deciso a rinunciare alla gloria cavalleresca per abbracciare l’itinerario ascetico nella vicina Manresa ad maioren Dei gloria – i miei progetti e le miei intenzioni furono per la prima volta “visitati” dalla prospettiva monastica: lì percepii il monachesimo non come fenomeno storico ma come possibile, concreta opzione di vita. Da allora per me il santuario di Montserrat è radicalmente inscindibile dal suo “cuore monastico”.
Ma qual è il senso di un santuario così intimamente legato a un monastero e di una comunità monastica così fortemente plasmata da un santuario? Condizione affinché un luogo venga percepito come “santuario” è che vi si possano cogliere elementi di “santità”, cioè di separazione, di “messa a parte” per Dio, elementi di una vita “altra”, una vita intesa in senso forte: energie vitali sviluppate da persone concrete, ma anche tracce, elementi che parlano di una vita orientata in un senso preciso, possibile in quel luogo o che testimoniano che lo è stata in un determinato tempo storico. Qualcuno potrà definire questo uno “spazio in cui l’amore può circolare”, in cui le varie presenze – di strutture come di persone – sono compaginate attorno a una ricerca di vita piena, di respiro, di libertà interiore.
Credo sia una delle sensazioni che chiunque sale a Montserrat percepisce subito, aiutato dalla continua compresenza di pellegrini e abitatori, di visitatori e di monaci. Storicamente il santuario è nato e si è poco alla volta sviluppato proprio grazie alla presenza in quest’angolo della Catalogna di monaci e di eremiti che nel corso dei secoli hanno saputo compiere il gesto di distogliere lo sguardo proprio e degli altri da se stessi per indirizzarlo verso le realtà divine. Quando, per dono di Dio, in un determinato luogo si viene a creare questo clima orientato al Signore e non a se stessi, allora chi desidera ri-orientare verso Dio la propria esistenza, trova in quel luogo la dimensione della santità cui ogni discepolo di Cristo è chiamato, riconosce come “santuario” quel luogo.
Credo sia per questo che i pellegrini continuano a salire a Montserrat, attirati da un carisma che appartiene al luogo e non a una persona. Non si tratta semplicemente del fascino dell’ambiente, piuttosto siamo di fronte al fenomeno che ha a che fare con il rapporto tra “trascendenza del luogo” e “santità del volto”: due aspetti che solo la nostra mentalità occidentale può vedere in contrapposizione. In realtà, vi è una costante sinergia tra i due elementi: la “trascendenza di un luogo”, il fascino che esercita di per sé, il legame tra paesaggio e numinoso, attira uomini particolarmente sensibili a questa dimensione spirituale, i quali scelgono di abitarlo stabilmente. Da quel momento la santità dei loro volti diviene anch’essa un elemento della trascendenza del luogo e fa sì che a distanza di anni o di secoli dalla loro morte, numerosissime altre persone, magari incapaci di cogliere la naturale sacralità di quello spazio, vengono tuttavia attirati dalla consapevolezza che lì degli uomini di Dio hanno vissuto, lavorato, pregato, accolto pellegrini.
Non solo, ma è anche possibile che la “santità del volto” arrivi a conferire una inedita “trascendenza” a un determinato luogo. Forse è per questo che i monaci sono stati chiamati anche amatores loci: la loro risolutezza nel fissare la propria stabilità in determinato luogo, non sempre “bello” in sé come invece la montagna di Montserrat, li ha portati a custodirlo come bene prezioso, a coltivarlo, ad abbellirlo, in una parola ad amarlo e a renderlo amabile anche per chi vi si reca solo di passaggio come pellegrino.
Ora, nel pellegrinaggio si va verso se stessi, si torna al proprio cuore, un cuore nuovo e antico, un cuore “altro”, unificato, deposto in noi dalla misericordia del Padre. E questa dimensione è particolarmente vera nel Santuario posto sotto il patronato della “Morenita”: un “altrove” rispetto al quotidiano dell’esistenza di ciascuno e una presenza “al cuore”, alle radici dell’identità stessa della chiesa catalana. Nel salire a Montserrat – il “Monte segato” che deve il nome alla sua insolita forma – il fedele esperimenta al contempo identificazione e stacco, esodo dalla propria situazione individuale e immersione in una dimensione comunitaria della propria fede.
Nonostante la familiarità che si può avere con un luogo come Montserrat, lo snodarsi del viaggio – soprattutto se lo si compie a piedi – ha una dimensione di esodo dal proprio mondo, di costante cambiamento di prospettive, di orizzonti, di panorami, un’inesauribile ricchezza di volti e paesaggi nuovi, un’alternanza del pensiero tra il luogo noto e certo che si è lasciato e l’ignoto cui si va incontro e del quale si sa solo che può offrirci nuova e duratura saldezza. E la qualità di “meta”, di telos, di compimento viene proprio dal poter offrire al pellegrino che vi si accosta quel clima di anelito alla santità, quello “spazio sacro” di fronte al quale ci si toglie i calzari del viandante, quel “faccia a faccia” con la verità che fa esclamare “Dio è là”.
Ma qual è lo specifico della testimonianza monastica in un santuario? Cosa offre un monastero come Montserrat ai pellegrini che lo visitano, agli ospiti che vi soggiornano e alla chiesa tutta? Fondamentalmente la liturgia e la vita comune come luoghi di una costante memoria del Vangelo. È questo il “cuore monastico” del santuario di Montserrat: in un luogo come quell’abazia vi è la costante dialettica tra l’andare e venire dei pellegrini e il rimanere, il dimorare, la stabilitas dei monaci. Dialettica e non contrapposizione, in quanto entrambe le modalità di sequela del Signore sono caratterizzate da questo equilibrio dinamico tra saldezza del cuore e conversione. La regola di Benedetto, che tanto insiste sulla stabilità del monaco non è forse un unico, costante appello al cammino di conversione? Assieme al voto di stabilitas, i monaci non fanno forse proprio quello di conversio morum? Sì, la vita monastica non è altro che un pellegrinaggio alla ricerca di Dio, una via che si imbocca con fatica all’inizio, ma che una volta intrapresa e vissuta nell’amore di Dio che scaccia il timore, diviene una corsa con il cuore dilatato nell’inenarrabile dolcezza dell’amore (cf. RB Prol 45-49). Forse è proprio per questo che anche chi non è monaco si sente attratto da Montserrat, dal suo cuore monastico che da secoli non cessa di battere affinché il Vangelo sia annunciato, affinché la Parola fattasi carne nel seno di Maria, divenga parola di vita nell’oggi della storia.
Enzo Bianchi
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