12 luglio 2009
di ENZO BIANCHI
La nuova enciclica di Benedetto XVI – la terza del suo pontificato – è un appello rivolto non solo alla chiesa nella sua cattolicità, ma anche “a tutti gli uomini di buona volontà”
La Stampa, 12 luglio 2009
La nuova enciclica di Benedetto XVI – la terza del suo pontificato – è un appello rivolto non solo alla chiesa nella sua cattolicità, ma anche “a tutti gli uomini di buona volontà”, secondo l’espressione inaugurata da papa Giovanni XXIII con la Pacem in terris. Un appello a riscoprire il volto autentico della carità, il suo articolarsi con la ragione, il suo essere inseparabile dalla giustizia, la sua capacità di plasmare il bene comune. Non una sorta di supplemento di anima per una società alla ricerca di valori smarriti - “un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali” - bensì la testimonianza di quanto appartiene alla profondità del cuore umano e, nel contempo, eccede la stessa giustizia. “La carità nella verità di cui Gesù Cristo si è fatto testimone” si spinge, come ci attestano i vangeli, fino all’estremo dell’amore per il nemico, è vissuta nella gratuità che non cerca né attende la reciprocità, si manifesta nel perdono unilaterale, nel saper rispondere al male con il bene. Come dimenticare l’audacia con cui Giovanni Paolo II sottolineava questa eccedenza della carità rispetto alla giustizia nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2002, quando si spinse ad affermare che “non c’è giustizia senza perdono”?
È questo il respiro ampio che attraversa le pagine della nuova enciclica. Non a caso, Benedetto XVI l’ha voluta ricollegare con forza e convinzione al magistero sociale della chiesa quale è venuto dispiegandosi nell’ultimo secolo, proponendo in particolare una sapiente e approfondita lettura della Popolorum progessio di Paolo VI pubblicata “in fecondo rapporto con il concilio e in particolare la Costituzione pastorale Gaudium et spes”. Il “messaggio della Popolorum progessio” non è solo l’oggetto, e il titolo, del primo capitolo della nuova enciclica, ma attraversa l’intera Caritas in veritate, servendo da filo conduttore delle riflessioni di Benedetto XVI. Del resto è un testo che, riletto a distanza di oltre quarant’anni, non appare per nulla desueto, ma mostra ancora una volta tutta la sua portata profetica: in questi decenni abbiamo assistito alla fine dell’eurocentrismo, alla scomparsa del colonialismo, al crollo delle ideologie dominanti – dall’implosione del socialismo reale alla crisi del liberalismo – ma la voce autorevole della chiesa nel campo sociale ha conservato una profonda continuità, mostrandosi “un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo”. Certo, gli eventi più o meno recenti che hanno scosso radicate convinzioni nell’approccio alle realtà sociali ed economiche – dalla globalizzazione alla crisi che stiamo attraversando – vengono attentamente presi in considerazione e forniscono lo stimolo per una lettura non disincarnata del mondo e delle sue vicende, ma lo sguardo sa volgersi alle esperienze del passato, sa spingersi a scrutare l’orizzonte futuro, sa scendere più in profondità proprio grazie a quel “pensare in grande” che è proprio della chiesa come comunità vivente e non solo come istituzione storica. Ogni qualvolta la chiesa rilegge il proprio passato è chiamata, infatti, a farlo alla luce della parola di Dio e percependo se stessa come un’unica realtà viva, abitata da una comunione che va al di là dell’appartenenza a un determinato periodo storico o a una specifica realtà geopolitica.
La disanima del papa procede così senza lasciarsi condizionare da sterili contrapposizioni ma invitando piuttosto a un sapiente discernimento in vista dell’assunzione di responsabilità precise da parte delle singole persone come di chi riveste un ruolo di governo istituzionale. In questo senso vi sono alcuni elementi dell’enciclica che vale la pena di sottolineare proprio in quanto capaci di condurre il lettore dagli aspetti maggiormente implicati nel contingente socio-economico a istanze più universali, a principi che, profondamente attinenti alla fede cristiana, contengono una “buona notizia” anche per chi cristiano non è. Penso in particolare all’ “economia della gratuità e della fraternità” - espressione già utilizzata da Giovanni Paolo II nella Centesimus annus – così necessaria in un mondo che si pretende sempre più efficentista ma che in realtà dimentica il dono, mortifica la solidarietà, dissolve la responsabilità. La gratuità, declinazione della “carità nella verità” è capace di indirizzarci “oltre la logica dello scambio degli equivalenti e del profitto fine a se stesso”, e di innescare nelle esistenze dei singoli e nei rapporti sociali dinamiche autenticamente liberanti.
Un secondo aspetto evidenziato da Benedetto XVI è la “responsabilità per il proprio e l’altrui sviluppo integrale”, oggi minacciata dalla progressiva perdita di consapevolezza che “i diritti presuppongono doveri senza i quali si trasformano in arbitrio”. Responsabilità, quindi, come assunzione del nostro dovere di rendere conto, “re-spondere” a chi condivide il nostro spazio vitale, ma anche a chi da lontano patisce oggi le conseguenze del nostro agire o alle generazioni future che riceveranno in eredità un mondo segnato, nel bene e nel male, dai nostri comportamenti quotidiani. Del resto, questa capacità di “rendere conto della speranza” che li abita è una delle qualità che la chiesa fin dal suo nascere richiede ai cristiani, come testimonia già l’apostolo Pietro agli albori del cristianesimo: a chi gli chiede conto delle motivazioni del suo agire, il cristiano deve saper rispondere “con dolcezza e rispetto” (1Pietro 3,15), non solo e non tanto a parole, ma con l’eloquenza della propria condotta, del proprio stile di vita.
E infine non va taciuta la rinnovata insistenza con cui Benedetto XVI invita al “dialogo fecondo tra fede e ragione” che non solo “rende più efficace l’opera della carità nel sociale”, ma che “costituisce la cornice più appropriata per incentivare la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace dell’umanità”. Sì, insieme possiamo cercare e perseguire prospettive condivise, insieme possiamo edificare giorno dopo giorno un’umanità degna di tal nome, capace di vivere in un mondo in cui, secondo la profezia del salmo, “misericordia e verità si incontreranno, pace e giustizia si baceranno”.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Stampa