12 luglio 2009
di ENZO BIANCHI
Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione”. Di questo rispetto la coscienza ci chiede conto qui e ora
La Repubblica, 12 luglio 2009
“Ero straniero e mi avete ospitato”, oppure no? È questo l’interrogativo che non cessa di risuonare da quando l’evangelista Matteo l’ha posto in bocca a Gesù nella sua descrizione del giudizio finale, descrizione che non mira tanto a raccontare quanto accadrà alla fine dei tempi, ma piuttosto a plasmare l’atteggiamento quotidiano dei discepoli e a fornire loro un criterio di giudizio sul proprio e l’altrui comportamento. Del resto, fin dall’Antico Testamento, la categoria dello straniero era quella che meglio raffigurava le diverse sfaccettature del bisognoso: lontano dalla propria casa, lingua e cultura, privo dei diritti legati all’appartenenza a un popolo, sovente lo straniero finiva per cadere ben presto nelle altre situazioni di emarginazione e sofferenza: malato, carcerato, affamato e assetato..., condizioni non a caso citate anch’esse da Gesù nel suo racconto sul giudizio. Nella tradizione veterotestamentaria l’attenzione, la cura e il rispetto per lo straniero si fondavano su una memoria esistenziale prima ancora che storica: l’invito “amate il forestiero perché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto” (Deuteronomio 10,19) risuona pressante e attuale anche per generazioni ormai da tempo saldamente insediate nella terra promessa. A questa consapevolezza si aggiunge nei vangeli l’inattesa identificazione di Gesù con il bisognoso, lo straniero che attende accoglienza e che sovente incontra rifiuto: ciò che si fa o non si fa al “più piccolo”, al più indifeso è dono elargito o negato a Gesù, come se egli fosse presente e recettivo ogni giorno al nostro agire.
In questo senso un dato complementare emerge con forza dalle pagine del Nuovo Testamento: Gesù stesso, il Gesù storico che ha abitato in mezzo agli uomini come uno di loro, è percepito e narrato come uno straniero, in quanto ha vissuto “altrimenti”, manifestandosi come “altro” agli occhi di chi lo ha incontrato e ne ha poi raccontato l’esistenza. Dall’infanzia come profugo in Egitto alla sua provenienza dalla Galilea, tutto lo rendeva marginale nell’ambito di Gerusalemme, cuore culturale e religioso di Israele: “Il Cristo viene forse dalla Galilea? ... Non sorge profeta dalla Galilea!” (Giovanni 7,41.52). Inoltre, il suo essere dotato di un’autorità carismatica fuori dell’ordinario suscitava una dura opposizione sia da parte dei sacerdoti che governavano il tempio, i quali lo consideravano pericoloso, sia da parte dei maestri della Legge, invidiosi della sua conoscenza autorevole e penetrante della Scrittura.
Gesù, con la sua missione e la sua esperienza di estraniamento che lo accomuna ai profeti, assume il volto dell’ “altro”: altro rispetto alle attese del suo maestro Giovanni Battista, altro rispetto alla famiglia che lo giudica “fuori di sé” e vorrebbe riportarlo a casa con la forza, altro rispetto alla sua comunità religiosa che lo considera “indemoniato” (cf. Marco 3,21 e 22). Egli è altro anche rispetto ai suoi concittadini di Nazaret: è significativo che proprio là dove dovrebbe attivarsi il meccanismo del riconoscimento e dell’accoglienza, nella sua patria, proprio là avviene paradossalmente il rifiuto, e Gesù diviene estraneo, fino a essere nemico. L’incomprensione di questa alterità conoscerà il suo culmine quando il Figlio sarà “ucciso dai vignaioli” – proprio quelli a cui era stato inviato – “e gettato fuori della vigna”!
Paradigmatica in questo senso è la presentazione di Gesù quale straniero fatta da Luca nell’episodio dei discepoli di Emmaus (cf. Luca 24,13-35): il Risorto, con i tratti di un viandante, si accosta a due discepoli e cammina con loro, mentre essi parlano con tristezza della morte del profeta Gesù di Nazaret. Alla sua domanda sull’oggetto del loro discorrere, essi ribattono: “Tu solo sei così forestiero da non sapere ciò che è accaduto in questi giorni?”: egli è lo straniero che cammina con gli uomini, che resta nascosto fino a quando, invitato a tavola, viene riconosciuto nel gesto di condividere il pane. Sì, nella condivisione del pane, nello stare a tavola insieme, nel conversare, nel fare memoria di ciò che si è vissuto, avviene il riconoscimento e lo straniero si rivela.
Forse possiamo allora cogliere meglio tutta la pregnanza di un ammonimento come quello che Gesù rivolge ai suoi discepoli: se egli può identificarsi con lo straniero fino al punto da considerare come rivolta a se stesso ogni cura prestata – e ogni offesa arrecata – a uno straniero nel bisogno è perché ha voluto vivere nella carne l’esperienza di estraneità, il venire in mezzo ai suoi e non essere riconosciuto, il vedersi negata quella dignità fondamentale di ogni essere umano. Perché, come ha ben ricordato papa Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate, “ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione”. Di questo rispetto la coscienza ci chiede conto qui e ora, di questo rispetto un giorno verrà chiesto conto a ciascuno.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Repubblica