6 giugno 2009
di ENZO BIANCHI
Vi sono alcuni elementi del discorso di Obama al Cairo che mi paiono sollecitare una riflessione che vada oltre le pur ricche e variegate implicazioni politiche e strategiche
La Repubblica, 6 giugno 2009
Vi sono alcuni elementi del discorso di Obama al Cairo che mi paiono sollecitare una riflessione che vada oltre le pur ricche e variegate implicazioni politiche e strategiche. Innanzitutto la capacità del presidente degli Stati Uniti di parlare a una “comunità” segnata da un’appartenenza religiosa, la umma musulmana, a nome di una “comunità” unita da un’etica condivisa: l’apparente squilibrio tra i due interlocutori – il capo di uno stato laico e l’insieme dei fedeli di una specifica religione – è superato proprio dal rilievo dato a ideali e principi che animano e unificano una specifica nazione al di là delle diverse appartenenze religiose dei suoi cittadini. Vi può essere – e Obama spiega come negli Stati Uniti vi sia stata e vi sia, pur costantemente minacciata da contraddizioni – una convergenza su determinati valori civili a partire da opzioni di fede diverse o dall’agnosticismo. Riconoscere la possibile esistenza e la reale dinamica di un’etica laica consente anche di discernere nei testi sacri e nella tradizione religiosa di una specifica fede quali elementi possano essere condivisi e quali sono stati tradotti nel vissuto quotidiano. Così, per esempio, si riesce a dare atto all’islam “per tutto il corso della sua storia” di aver “dimostrato con le parole e le azioni la possibilità di praticare la tolleranza religiosa e l’eguaglianza tra le razze”.
Quello che porta molti ad ascoltare Obama è la sua capacità di infondere fiducia, speranza nel domani della storia – “Sono qui oggi per cercare di dare vita a un nuovo inizio ... all’inizio di un nuovo rapporto”; è la sua capacità di trarre anche dal sacro Corano parole di monito, evocatrici di una missione per cristiani e musulmani; è la sua forza nel ribadire che la fede dovrebbe avvicinare cristiani e musulmani e “trasformare il dialogo in un servizio interreligioso”.
Ora, due parole tornano con insistenza nell’articolato discorso di Obama da comunità statuale a comunità di fede, due parole che rinviano entrambe a un’appartenenza collettiva: “responsabilità” e “insieme”. Responsabilità – non a caso termine-chiave già nel discorso di insediamento del presidente degli Stati Uniti – significa sì discernimento del proprio coinvolgimento in errori compiuti nel passato remoto o recente ad opera del corpo comunitario cui si appartiene, ma anche e soprattutto consapevolezza di dover “re-spondere”, rendere conto ai propri contemporanei e alle generazioni future del proprio pensare e del proprio agire, accettare il dovere morale di “scegliere il cammino giusto e non quello più facile” o più appagante in termini di interessi personali o particolari. Questa responsabilità consente di fare memoria da un lato evitando “l’incessante e autodistruttiva attenzione per il passato” e di “rimanere ancorati al passato” o “intrappolati” in esso e, d’altro lato, facendo tesoro degli errori e delle ricchezze della propria storia e tradizione per “puntare tutti insieme sul futuro che vogliamo dare ai nostri figli e per rispettare la dignità di tutti gli esseri umani”.
Responsabilità significa anche rinunciare alla via più facile di “accusare gli altri invece che guardarsi dentro”: questo tipo di discernimento interiore contiene inevitabilmente l’appello a una ricerca e a un lavoro da compiersi “insieme”. Non solo perché l’unione fa la forza, non solo perché la diversità è una ricchezza, ma perché tutti noi “condividiamo questo pianeta per un brevissimo istante di tempo”. Ciascuno deve allora assumersi la responsabilità dell’altro, perché tutti gli esseri umani nascono uguali e perché per tutti vige quella regola aurea che è fondamento di ogni religione e di ogni sistema etico: “fare agli altri quello che si vorrebbe che gli altri facessero a noi”. Ciascuno troverà declinato questo comandamento nei testi fondanti le proprie convinzioni di fede e i propri ideali e saprà discernere quali azioni concrete, quali atteggiamenti, quali dialettiche sapranno tradurre il sogno di un mondo migliore nella realtà quotidiana di un bene comune accessibile a tutti.
È solo un sogno quello di Obama? Eppure, non è proprio questo ciò che sperano, magari confusamente, i musulmani delle diverse nazioni, i copti in Egitto, i maroniti del Libano, gli ebrei in Israele? E quando Obama ricorda quel testo escatologico del Corano in cui Mosè, Gesù e Maometto pregano insieme, oppure quando richiama la benedizione di Dio sui pacifici citando l’uno dopo l’altro il Corano, il Talmud e il Vangelo può darsi che ciò appaia inadeguato a esprimere la fede professata da un cristiano, ma non può non richiamare alla memoria la profezia di Isaia nella Scrittura sacra a ebrei e cristiani: “In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria; l’Assiro andrà in Egitto e l’Egiziano in Assiria, e gli Egiziani renderanno culto insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore dell’universo dicendo: «Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità»” (Isaia 19,23-25). Parole di un profeta del VI secolo a.C. che ci ricordano come da 2500 anni in quella regione del Medioriente si continua a sperare così: pace, giustizia, riconciliazione...
Speranza che, Obama ce lo ricorda con forza, riposa anche sulla responsabilità di ciascuno: compito esigente quello cui tutti insieme siamo chiamati, percorso faticoso e arduo, ma cammino possibile, alla portata di ogni essere umano degno di questo nome. Sì, perché “convivere in pace ... è il volere di Dio, ed è il nostro dovere su questa terra”: questa convivenza nella pace sarà possibile se ce ne assumeremo tutti insieme la responsabilità, se insieme sapremo rendere conto in parole e opere della nostra appartenenza all’unica comunità umana.
Enzo Bianchi