3 marzo 2009
di ENZO BIANCHI
È opera di umanizzazione far sì che l’istinto – che ci accomuna alle bestie – sia trasfigurato in desiderio, in un anelito che tiene conto degli altri ed è consapevole dell’esigenza della condivisione di quanto ci fa vivere
La Stampa, 3 marzo 2009
La mia generazione, cresciuta in un’epoca ancora di cristianità, era educata umanamente e cristianamente a “fare sacrifici”. Si era invitati sovente, soprattutto dalla chiesa, a privarsi di qualcosa, a sacrificare qualcosa, a “fare fioretti”, come si diceva. Negli anni del dopoguerra, in cui molti vivevano in condizione di fame e miseria, “fare sacrifici” non era per costoro un’opzione, ma semplicemente la condizione toccata loro in sorte. Ma quell’invito ossessionante alla privazione, sovente svuotato di ogni motivazione e slegato dalla possibilità di vederne i frutti, creò di fatto una reazione di rigetto: nessuno volle più sentir parlare di sacrifici, né tanto meno continuare a farli, soprattutto nell’ora del boom economico.
La chiesa in occidente, così precisa nel prescrivere astinenza dalle carni e digiuni – al venerdì, durante la quaresima ma anche alla vigilia delle grandi feste – si adeguò ai nuovi tempi, così che oggi il digiuno è rimasto come precetto per i cattolici solo per l’inizio della quaresima – il mercoledì delle ceneri – e per la sua fine, il venerdì santo, giorno della memoria della passione e morte di Gesù Cristo. Sì, la mia generazione è di fatto responsabile della mancata trasmissione alle nuove generazioni del valore del sacrificio. Ora, se non siamo capaci di comunicare la serietà del valore del sacrificio, ci ritroveremo con nuove generazioni incapaci di intravedere un orizzonte di bene comune e di speranza, vedremo rarefarsi gli uomini e le donne pronti a dedicare tempo, mezzi, energie, beni per una maggiore umanizzazione, per la crescita di una convivenza pacifica, per l’affermarsi di valori e principi degni dell’uomo. Mancanza grave, in verità, perché il sacrificio è una cosa seria: è il privarsi di un bene, l’astenersi da una possibilità in vista di un bene più grande. Spendere le proprie energie, fino al gesto estremo di sacrificare la vita stessa è possibile e doveroso se con quel sacrificio si ottiene giustizia, pace, libertà. Non dimentichiamo, ad esempio, che se noi oggi godiamo della libertà e della democrazia è grazie a quanti hanno sacrificato la propria vita per conquistarle e difenderle.
Così, quando la chiesa chiede di digiunare il venerdì santo non lo fa per alimentare una sterile “mortificazione”, ma perché sa che il rapporto che ogni essere umano ha con il cibo è qualcosa di decisivo, sa che l’oralità va disciplinata, che la voracità favorisce l’aggressività e il narcisistico soddisfacimento dei proprio istinti. È opera di umanizzazione far sì che l’istinto – che ci accomuna alle bestie – sia trasfigurato in desiderio, in un anelito che tiene conto degli altri ed è consapevole dell’esigenza della condivisione di quanto ci fa vivere, a cominciare dal pane e dal cibo. Occorrerebbe far capire questo significato profondo del digiuno in un’epoca in cui si è perso il senso stesso del mangiare come atto di comunione, di condivisione. Si capirebbe così anche la dimensione sociale del digiuno, rimarcata con forza già dai profeti: “Questo è il digiuno che voglio, dice il Signore: sciogliere le catene inique, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo ... dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, senza tetto, vestire uno che vedi nudo... “ (Isaia 58,6-7).
Quando oggi si viene invitati all’astinenza, sarebbe bene viverla anche da tante realtà che ci condizionano e che ci distraggono dal vedere il bisogno dell’altro e dalla solidarietà con chi soffre: perché non pensare a un sano digiuno dal troppo parlare, dalla dissipazione del non fermarsi mai a pensare, dall’invadenza pervasiva della televisione, magari anche dall’ottundimento del comunicare il nulla con una miriade di messaggini – come suggerito un po’ sbrigativamente da qualche ufficio di pastorale giovanile... Certo, chi fa inviti in questo senso deve anche saper motivare i sacrifici richiesti, deve farne emergere le ricadute positive su chi li vive e sugli altri, altrimenti si ottiene ancora una volta l’effetto contrario: si dissolve il significato autentico del sacrificio banalizzandolo a una pratica estemporanea e curiosa.
Non si dimentichi infine che quando la chiesa chiede il digiuno in determinati giorni, invita i cristiani a viverlo simultaneamente e tutti insieme, invita cioè ad assumere personalmente un sacrificio carico di una oggettività che gli viene da un vissuto comunitario. Se ciascuno assecondasse le proprie bizzarrie e stravaganze nel scegliere il “sacrificio”, sostituendo una prassi condivisa con quanto lui trova più facile o attraente, si ricadrebbe ancora una volta nella logica del “fai da te” che tanto danno sta procurando alla nostra società odierna e ai suoi valori un tempo condivisi.
Enzo Bianchi
per approfondire il tema del digiuno cristiano:
COSTI BENDALY
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Pubblicato su: La Stampa