19 novembre 2008
di ENZO BIANCHI
Ogni tanto un soffio di gratuità ci riporta il gusto e il sapore di una sapienza contadina che sapeva essere creativa e generosa per fare anche della propria ristrettezza un’occasione di festosa condivisione
ENZO BIANCHI
Il pane di ieri
Einaudi, 2008
La Stampa, 19 novembre 2008
Per una cultura contadina come quella del Monferrato, in cui le colline sono interamente rivestite di filari di uva disposti in modo che ciascuno mostri il meglio di sé davanti al sole che lo bacia, la stagione della vendemmia è non solo il coronamento di un’annata di lavoro, ma il simbolo dell’intimo rapporto tra l’uomo e la terra che abita: quella terra precisa, quel pendio particolare, quell’avvallamento unico in cui le generazioni che hanno preceduto il vignaiolo hanno deciso che lì andava stipulata un’alleanza di vita per la vita, lì e non altrove bisognava porre le radici affinché i tralci potessero crescere e prosperare.
In simile contesto, che è stato a lungo anche il mio, la vendemmia è lo spazio e il tempo, il luogo e il momento in cui questa alleanza viene rinnovata. Il vino nuovo è solo promesso per la primavera che segnerà un nuovo inizio, ma l’uva raccolta e pigiata è lì a testimoniare il «già e non ancora» di tanta passione, la caparra della ricompensa di un’obbedienza reciproca: obbedienza del contadino alla sua terra e obbedienza della vigna al suo vignaiolo. Non sorprende allora che, accanto e oltre al vino, la sapienza contadina abbia sempre saputo trarre da quell’unica coltura una quantità svariata di frutti. Penso innanzitutto alla «mostarda», il cui nome deriva dal mosto e non, come in altre regioni italiane o all’estero, dalla «moutarde», cioè la senape. La mostarda monferrina – che per tanti anni ho visto fare proprio nei giorni immediatamente successivi alla vendemmia e che ancora oggi preparo con la stessa cura e la stessa passione trasmessami dalla generazione che mi ha preceduto – non è una marmellata, non è una confettura, non è una salsa: è l’amalgama tra i frutti della terra e il lavoro sapiente dell’uomo, è la sintesi di coltura e cultura che il calore del fuoco esalta per la delizia del palato e la gioia degli occhi.
In un bacile di mosto di barbera ricco di berti – le bucce degli acini spremuti – le donne di casa mettevano a macerare la frutta che la stagione al suo declino sapeva dare ancora in abbondanza: mele, pere, fichi, prugne, pesche, cotogne, more, mirtilli... Era la frutta che aveva accompagnato da vicino, in mezzo ai filari o nei boschi e nei cespugli dei dintorni, la crescita e la maturazione dell’uva e che ora si univa al succo in fermento per una fine degna di quell’amicizia durata tutto l’anno. Per tutta la notte la ribollente ricchezza del mosto impregnava ogni fibra di quei frutti, cedendogli il colore rubino e ricevendo in cambio aromi zuccherini.
All’indomani, fin dal mattino presto fervevano i preparativi: noi bambini eravamo confinati in un angolo del cortile a sgusciare noci e nocciole, e cercavamo invano di sottrarne furtivamente qualcuna all’occhio vigile degli adulti per nulla distratti dalle loro incombenze. Poco lontano si preparava la legna e il sostegno su cui collocare la pentola per la cottura: dovendo questa protrarsi per l’intera giornata, non si poteva infatti usufruire dell’abituale focolare del camino se non al prezzo di rinunciare a cucinare altri cibi per quel giorno. Acceso il fuoco e riversato nella pentola il mosto rallegrato dalla frutta, subito iniziava a spandersi nell’aria un profumo inebriante: esaltati dalla fermentazione e dal calore, gli aromi della frutta stemperavano e addolcivano il pungente odore del mosto e ne facevano pregustare il sapore. Per ore e ore si doveva vigilare a che il fuoco fosse abbastanza alto da continuare a far bollire la mostarda senza tuttavia farla attaccare al fondo della pentola: un sapiente alternarsi di legna aggiunta e di braci smosse, un rimestare delicatamente di tanto in tanto quel magico amalgama facendo esplodere vampate di profumo e, se si era troppo imprudenti, anche schizzi bollenti di cugnò (cotognata era infatti l’altro nome della mostarda, quello che sottolineava la presenza delle cotogne a fare da umile legante all’insieme della frutta). A cottura quasi ultimata, si gettavano nella pentola le noci e le nocciole, magari dopo aver tostato queste ultime, assieme a qualche scorza di limone. Dopodiché si passava al «rito» dell’invasamento nelle amburnìe, nei vasi ermetici di vetro di cui si era verificata prima l’accurata pulizia, la tenuta della guarnizione di gomma, il funzionamento del meccanismo di chiusura in alluminio. Un’operazione che andava fatta con la mostarda ancora bollente, per aiutare la formazione del sottovuoto che avrebbe garantito una miglior tenuta del vaso: comunque, nel dubbio, un velo di grappa sulla superficie era il tocco finale che aumentava la sicurezza della conservazione.
Terminate le operazioni, ai bambini spettava di diritto una prima pulizia della pentola e degli attrezzi usati: c’era davvero di che leccarsi le dita... La mostarda era poi custodita con cura e usata come segno di festa: sul pane abbrustolito, a guarnizione di superbe crostate, sulla polenta fritta, con i formaggi stagionati, persino sulla neve fresca, era il tocco di bontà che sapeva nobilitare ogni cibo che veniva a contatto con lei. Né agra, né dolce, né piccante, né salata, non per questo la mostarda era «neutra», tutt’altro: un gusto inconfondibile di vino e di frutta sembrava comunicare il meglio che usciva dalle piante coltivate dall’uomo, era come il segno tangibile della gratitudine della natura verso chi aveva saputo capirla e interpretarla così bene.
Accanto alla mostarda, ho già accennato alla grappa o branda: distillati familiari delle vinacce e del vino in sovrappiù. C’era sì chi ne abusava – come del vino, del resto –, ma nessuno rinunciava per questo a produrla e ogni famiglia ne teneva comunque alcune bottiglie per gli scopi più disparati: contro raffreddori e influenze, per stemperare il freddo delle lunghe serate invernali, per lenire gli effetti di qualche eccesso gastronomico... Quella più rozza era usata anche per disinfettare ferite accidentali, mentre la più raffinata, distillata dalle uve del brachetto e depurata da «testa» e «coda» troppo violente, era custodita con parsimonia e appariva come festosa accoglienza all’arrivo di qualche amico. Oggi crediamo di sapere che alcune di queste pratiche possono essere controproducenti o addirittura sanitariamente scorrette, ma non dobbiamo dimenticare che un tempo era l’insieme delle usanze che ne favoriva un uso appropriato. Era tutta una cultura che sapeva creare, custodire e mescolare antidoti e correttivi con mezzi e strumenti alla portata di tutti: l’alimentazione e lo stile di vita finivano per essere molto più equilibrati, pur nella scarsità o poca varietà di cibo, che non gli odierni punteggi di calorie o le paradossali combinazioni di integratori alimentari. Sì, c’era una sapienza dei sapori, una conoscenza di limiti e virtù di se stessi e di quanto si mangiava e beveva, che garantiva un’autentica qualità della vita.
Sì, il criterio dell’efficacia, della produttività e del profitto sembra aver preso il sopravvento anche in mezzo ai filari e nelle cantine, ma fortunatamente ogni tanto un soffio di gratuità ci riporta il gusto e il sapore di una sapienza contadina che sapeva essere creativa e generosa per fare anche della propria ristrettezza un’occasione di festosa condivisione, perché da sempre i poveri sono quelli che sanno donare con gioia.
Enzo Bianchi
ENZO BIANCHI
Il pane di ieri
Einaudi, 2008
Pubblicato su: La Stampa