Pubblicato su: FAMIGLIA CRISTIANA - gennaio 2011
di ENZO BIANCHI
Martire è, infatti, il “testimone” per eccellenza, quel credente che non esita a esplicitare la fede che professa in parole e azioni capaci di segnare una “differenza” rispetto alla mentalità dominante
Nel recente messaggio per la Giornata mondiale della pace, Benedetto XVI si è soffermato sul nesso profondo tra “libertà religiosa e pace”, mentre la tragica attualità di queste ultime settimane ha riportato all’attenzione della chiesa e della società il martirio dei cristiani come possibilità che si presenta nella realtà quotidiana di tanti paesi del mondo. Sapientemente il papa ha voluto accostare e nello stesso tempo differenziare due situazioni legate alla libertà religiosa: da un lato le persecuzioni, le minacce di morte e gli attentati subiti da tante comunità cristiane in paesi dove sono minoranza e, d’altro lato, un’insofferenza verso simboli e segni cristiani presenti nel tessuto culturale e sociale di paesi di antica cristianità. Ora, credo che i cristiani nei paesi occidentali, più che preoccuparsi di un’improbabile degenerazione violenta di questa inedita insofferenza – permane abissale la distanza tra il misconoscimento di antiche consuetudini e gli attacchi brutali a persone e comunità per il loro semplice essere cristiani – dovrebbero interrogarsi sul significato profondo del termine e della realtà del “martirio”. Martire è, infatti, il “testimone” per eccellenza, quel credente che non esita a esplicitare la fede che professa in parole e azioni capaci di segnare una “differenza” rispetto alla mentalità dominante, di certificare la verità di quello in cui crede, di rendere conto della speranza nella resurrezione che abita il suo cuore. La buona notizia, il vangelo del “Dio che ha tanto amato il mondo da dare ad esso il suo Figlio unigenito” va annunciata con mezzi conformi al messaggio stesso, quindi con gli strumenti della carità e dell’amore per il prossimo, fino al gesto estremo dell’amore per il nemico, fino alle conseguenze ultime che possono implicare di perdere la propria vita, di “donarla” con l’effusione del sangue. Questo non significa ricercare la persecuzione, ma ascoltare il messaggio che viene da tanti fratelli e sorelle provati nella loro fede e, nel contempo, rendersi conto che l’ostilità subita può essere occasione di rinnovate energie spirituali per i singoli e per le comunità che la patiscono.