Pubblicato su: Messaggero di sant'Antonio - gennaio 2011
UGO SARTORIO intervista ENZO BIANCHI
L’eterna giovinezza artificiale ci candida al museo delle cere: non ha molto senso. L’uomo può aspirare a una bellezza straordinaria
Bibbia e cibo, amicizia e quiete, terra e amore sono argomenti complessi e all’apparenza disomogenei. Fratel Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, li armonizza in un unico e grande inno alla vita e a Dio. La Comunità è presente oltre che a Bose, a Gerusalemme (Israele), Ostuni (BR) e Assisi (PG).
I colti lo stimano per la sua finezza intellettuale e spirituale, la gente lo segue perché sa parlare al cuore. Enzo Bianchi, fondatore e priore della Comunità di Bose, non è di quelli che amano esporsi, eppure la Parola a cui dà vita attraverso i suoi libri e le numerose conferenze ha una forza che va oltre: comprende, contagia, provoca. È un’esperienza dialogare con lui di Dio, di vita, di fede, perché ogni piccola cosa della quotidianità può diventare uno squarcio sull’infinito.
Insieme a testi che parlano direttamente della fede e del cammino cristiano per approfondirla e condividerla, ultimamente ha pubblicato libri che mescolano la vita, la memoria, la terra e le stagioni: è il caso de Il pane di ieri, ma anche dell’ultima fatica editoriale, Ogni cosa alla sua stagione (entrambi Einaudi). Si tratta di una svolta?
È una svolta che riguarda solo lo stile dei miei libri – risponde Bianchi –, ma chi mi conosce sa che ho sempre coltivato una dimensione narrativa, soprattutto a tavola con gli amici. Ciò che scrivo è stato già condiviso e offerto almeno oralmente e, qualche volta, in alcuni articoli per la stampa. Io continuo a essere sempre e soprattutto uno che cerca nell’ambito della spiritualità biblica, e la narrazione mi dà la possibilità di parlare e dialogare con tante persone che magari non hanno l’abitudine di passare sui sentieri della fede o su quelli della Parola di Dio e della Bibbia.
Nel libro si incontra più volte la parola «quiete», si parla dell’arte di abitare con se stessi e di unificazione dell’io. Gli uomini d’oggi preferiscono parlare di relax, di esercizi per scaricare la tensione. Dove sta la differenza?
Chi cerca la quiete cerca un’unificazione interiore tra ciò che vive e ciò che è: nulla è dimenticato o lasciato cadere e nessun esercizio viene praticato per trovare un distacco come invece richiede il relax. Chi cerca la quiete vive nel quotidiano ma aspira all’unità di tutta la persona e questo può produrre davvero una grande pace: è una forma di beatitudine, di felicità che si esperimenta con tutta la persona, corpo compreso.
A un certo punto del suo ultimo libro scrive di sé: «Di carattere e di formazione sono un uomo piuttosto discreto, che ama parlare poco delle vicende personali e più intime», ma chi la legge percepisce una grande sintonia, un forte senso di condivisione.
Nel mio ultimo libro, come ne Il pane di ieri, ma anche nei miei libri di spiritualità in generale, io cerco innanzitutto due cose: parlare di ciò che ho vissuto e vivo e di cui conosco sia il peso che la gioia, evitando tutto ciò che non fa parte della mia esperienza. La seconda cosa è l’attenzione al quotidiano. Io non ho mai cercato cose grandi o il successo, non perché sono umile e virtuoso ma per il fatto che non fanno per me. Fin da piccolo mi è stata inculcata la semplicità, la quotidianità, l’adesione alla realtà sempre e comunque. Era uno dei ritornelli della mia educazione, che mi porto dietro e che ora, a mia volta, cerco di trasmettere agli altri.
La famiglia, le radici, le amicizie, l’essere stati amati, le occasioni, le esperienze vissute, determinano il carattere e orientano l’esistenza di ognuno di noi. Quanto conta allora la fortuna, o quello che si intende con questa parola?
Io sperimento spesso che persone che non riescono nella vita ad avere relazioni con gli altri, a essere uomini come desiderano, hanno queste difficoltà perché nessuno ha creduto davvero in loro, specie nel momento in cui sono venuti al mondo. Devo dire che nel mio caso ha avuto un’importanza particolare la mia maestra di scuola che soleva dire: «Se io non metto nei primi banchi le persone meno dotate, significa che non credo in loro. Non voglio che un giorno debbano dire che la loro maestra non credeva in loro». È molto importante avere qualcuno che creda in noi, e, se ci pensiamo bene, questo vale anche nell’amore. Conosco molte coppie il cui amore si rompe perché c’è una mancanza di fede nell’amore dell’altro: senza questa basilare fiducia l’amore non può durare, la fedeltà non è possibile, la perseveranza diventa una schiavitù troppo forte da portare e tutto va in frantumi.
Lei parla spesso di cibo e dello stare a tavola. Delle raviole che prepara con le sue mani, della bagna càuda, dei tartufi, ma anche di vini, come quel «grignolino dal sapore ambrato che è il migliore fuori pasto». Una conoscenza che fa onore a un buongustaio. Stupisce che sia un monaco a dire questo…
Avendo perso mia madre a otto anni, ho dovuto far da mangiare per me e mio padre finché lui non si è risposato. Ciò mi ha abituato a un rapporto con il cibo, con gli alimenti e con gli ingredienti che ho a lungo meditato. Ancora oggi devo dire che una delle cose che mi dà più gioia è la cucina, e così cerco, almeno una volta alla settimana, di fare un pranzo per gli amici o per chi in comunità festeggia il compleanno. Penso che il piacere del cibo diventa una grande lode a Dio, un godere di ciò che è uscito dalle sue mani e che Egli ha visto «bello e buono». Anche nella creazione Dio ha avuto tanta fiducia nelle sue creature, e, una volta che le ha fatte, le ha viste «belle e buone». Come possiamo noi non vedere buone tutte le cose che ci circondano e di cui addirittura ci nutriamo? Per me il rapporto con il cibo e la terra è una questione spirituale.
Un posto particolare, in queste pagine, ce l’ha l’amicizia, verso la quale usa parole dolcissime e insieme esigenti. L’amicizia è balsamo di vita, ma anche una disciplina che non si finisce mai di imparare. Perché?
Da un lato credo che l’amicizia sia la cosa più bella che si possa vivere. Per noi monaci, che cerchiamo di essere fedeli alla nostra vocazione nel celibato, l’amicizia è la maniera rara in cui possiamo gustare la gratuità dell’affetto degli altri; l’amicizia condivisa è veramente il balsamo che nella nostra vita ci dovrebbe accompagnare. Ma nello stesso tempo l’esperienza ci mostra che essa deve essere disciplinata in molte maniere. Innanzitutto deve essere qualcosa che noi vogliamo vivere, e anche quando viene meno dall’altra parte, quando l’amico non si fa sentire o sta vivendo un momento di difficoltà con noi, dobbiamo avere il coraggio di ricominciare. L’amicizia non può esser lasciata vivere semplicemente per la forza e la bellezza del sentimento, c’è sempre qualcosa che può rovinarla come la volontà di possedere l’altro, di toglierlo dalla sua libertà per farlo entrare nel nostro mondo. E questa disciplina – indispensabile anche nell’amore – è la garanzia perché l’amicizia possa durare e destare stupore ogni giorno, come se fosse una cosa nuova, una storia che ricomincia.
Nella sua vita ci sono i libri, letti fin da bambino, e il Libro, prima il Vangelo, a sei anni, e poi la Bibbia, a tredici. Che rapporto ha con la lettura in genere e poi con la lectio del testo biblico, che occupa una parte importante della sua vita di cristiano?
Negli anni, le mie letture sono cambiate. Un tempo leggevo molti più libri di letteratura, romanzi soprattutto, che oggi accosto di rado, dando la preferenza a poeti di ogni cultura. Per me, comunque, resta assolutamente centrale la lettura della Bibbia, attraverso la forma della lectio divina. Devo dire che sono stato molto aiutato fin da giovane dal mio padre spirituale a distinguere tra lettura di studio della Bibbia e lettura della Bibbia come incontro con il Signore. Per cui se è vero che passo molte ore sulla Bibbia leggendo articoli di esegesi, libri e commenti, aggiornandomi costantemente soprattutto su alcuni libri, come il Nuovo Testamento e i Salmi, la lectio divina è sempre un atto centrale nella mia vita, a tal punto che se sono fuori dal monastero per conferenze e non trovo un momento di pace per la mia lettura della Bibbia, mi sento quasi ferito. S’insinua un fastidio che mi dura per tutto il giorno, come se mi mancasse quel momento centrale capace di illuminare tutta la giornata e dare un senso anche alle altre letture.
Parlando di una strana figura della sua infanzia e giovinezza, una certa Teresina del Muchét, lei scrive: «È stata un’icona della gratuità, della capacità che ciascuno di noi possiede di far sbocciare fiori dal letame». Cosa intende con queste parole, che sono anche un’indiretta citazione di De André?
Intendo dire che anche le persone più semplici, le più povere – in quel caso si trattava di una persona che era talmente misera da trascinarsi dietro il suo cattivo odore –, se noi abbiamo il coraggio di ascoltarle e di vederle al di là di come appaiono, sono sempre capaci di essere un fiore per la nostra vita. Io sono convinto che la mia più profonda gratitudine non vada ai grandi uomini della società e della Chiesa che pure ho avuti vicini, ma ad alcuni girovaghi, poveri e umilissimi. Non sto facendo poesia, sento davvero che queste persone hanno una capacità di dialogo molto profonda anche con chi non conoscono.
Invecchiare è imparare l’arte di congedarsi, ma anche la possibilità di acquisire maggiore gratuità nei confronti della vita e degli altri. Perché, invece, molti fingono di essere eternamente giovani?
L’eterna giovinezza artificiale ci candida al museo delle cere: non ha molto senso. L’uomo può aspirare a una bellezza straordinaria: io l’ho scorta in monaci novantenni del Monte Athos, dell’Oriente o anche dell’Occidente, gente che non ha mai pensato di modificare neppure una ruga. La giovinezza ha una sua bellezza, lo sappiamo tutti, ma poi bisogna anche accettare che il corpo prenda le forme dettate da quell’orologio implacabile che è il tempo. Eppure anche così si può fare un capolavoro, l’importante è tenere sempre gli occhi visionari e penetranti.
Ogni sera, prima di andare a letto, alla fine della preghiera, lei ripete un gesto, cioè bacia la terra. Perché?
Me lo hanno insegnato da piccolo. Nelle vecchie case si aveva proprio la sensazione di baciare la nuda terra, perché i pavimenti erano d’argilla, invece adesso le piastrelle sono belle lucide. Eppure io continuo a baciare il pavimento perché comunque un po’ di polvere per terra c’è e la polvere è qualcosa di venerabile, perché alla polvere dovremo tornare. Quel bacio alla sera è un gesto di fedeltà, un Amen, per dire alla terra: «Ti amo, anche se ti dovrò lasciare».