L'Osservatore Romano - 3 ottobre 2008
di ENZO BIANCHI
XVI Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
LA PATERNITÀ SPIRITUALE NELLA TRADIZIONE ORTODOSSA
Bose, 18-21 settembre 2008
in collaborazione con le Chiese Ortodosse
Ecco lo statuto paradossale della paternità spirituale: il padre soffre per una gestazione di Cristo che spetta al figlio condurre
Il patrimonio comune dei padri spirituali
L'Osservatore Romano, 3 ottobre 2008
«Cristiani non si nasce ma si diventa»: le parole di Tertulliano (Apologetico XVIII,5) dicono bene quel mistero della generazione alla vita in Cristo, più profondo del dono stesso della vita naturale, che si realizza grazie alla mediazione di un padre o di una madre esperti nell’arte dell’accompagnamento spirituale. La tradizione dei padri, soprattutto nella Chiesa d’oriente, è unanime nel riconoscere il carattere fondamentale di questa relazione: “Quanti non hanno avuto padre, non sono divenuti figli. E quanti non sono divenuti figli, è chiaro che non sono venuti all’esistenza. E quelli che non sono venuti all’esistenza non sono entrati nel mondo spirituale…”, scrive Simeone il Nuovo Teologo all’inizio del secondo millennio.
Il tema della “Paternità Spirituale nella tradizione ortodossa” è stato al centro del XVI Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (Monastero di Bose, 18-21 settembre 2008), organizzato congiuntamente dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli e dal Patriarcato di Mosca, in collaborazione con la comunità monastica di Bose. Il Convegno ha offerto un’occasione di scambio fraterno e di riflessione comune su uno dei temi cardine della vita cristiana, come hanno sottolineato il Santo Padre Benedetto XVI, nel telegramma pervenuto per il tramite del cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, e i messaggi di saluto dei patriarchi Bartolomeo I di Costantinopoli e Alessio II di Mosca, oltre a quelli di Pavle di Serbia, di Daniel di Romania e di Garechin II di tutti gli Armeni, e degli Arcivescovi Ieronymos di Atene, Anastasios di Albania e Rowan di Canterbury: nella ricerca di un’autentica paternità spirituale, le tradizioni cristiane d’oriente e d’occidente intersecano gli interrogativi profondi dell’uomo contemporaneo. È infatti la figura del padre spirituale che rivela la dimensione relazionale della fede cristiana, la sua capacità di allargare l’orizzonte esistenziale della persona, di condurla alla sua autentica misura: “La fede si trasmette da persona a persona”, ha ricordato il cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, nella lettera indirizzata ai convegnisti, “e addirittura l’insegnamento e la catechesi non dovrebbero svincolarsi da quest’arte agapica”.
Il colloquio di quest’anno si è svolto “ai piedi di un padre spirituale del nostro tempo”, il metropolita Emilianos (Timiadis) di Silyvria (1916-2008) del Patriarcato Ecumenico, recentemente scomparso, il cui sguardo sapeva penetrare la tradizione dei padri della Chiesa per scrutare il divenire della Chiesa e del mondo di oggi. E proprio l’ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture, e meditata e realizzata nella grande tradizione dei padri, ha costituito il filo conduttore dei lavori del Convegno. A partire dalla ricchissima riflessione della Chiesa antica sulla figura del padre spirituale, dai padri del deserto a Basilio di Cesarea e Giovanni Crisostomo, da Giovanni Climaco in Oriente a san Benedetto in Occidente fino agli importanti sviluppi della tradizione studita, le relazioni non hanno mancato di considerare l’evoluzione del rapporto di paternità nelle diverse tradizioni ortodosse: nella Grecia moderna con Nicodemo Aghiorita, in Russia, da Nil Sorskij agli starcy di Optino, Ignatij Brjan?aninov e Teofane il Recluso, fino alla novità rappresentata dai padri e dalle madri spirituali nel xx secolo, anche in aree apparentemente marginali come la Georgia e la Serbia contemporanea.
Certo, non troveremo nella Bibbia una trattazione esplicita del tema della paternità spirituale, così caro alla tradizione monastica d’Oriente e d’Occidente. E tuttavia i padri del tutto naturalmente scorgono nella Scrittura stessa il fondamento di questo ministero: “Non vi è altra via sicura di salvezza che quella di manifestare i propri pensieri ai padri” scrive Giovanni Cassiano, e precisa: “La verità di questo ci è possibile apprenderla da molti passi delle Scritture ispirate, in particolare dalla storia del santo Samuele”. Secondo Niceta Stethatos la “nascita dall’alto” di cui si parla nel dialogo tra Gesù e Nicodemo (cf. Gv 3,3) “si attua grazie alla sottomissione ai padri spirituali”, e la Scrittura santa offre il modello di questa generazione nello Spirito: “Così i dodici sono nati da Cristo e i settanta sono nati dai dodici e sono divenuti figli di Dio Padre” (Capitoli naturali 53).
Nell’Antico Testamento, il primo rapporto che potremmo definire tra padre e figlio spirituali, quello tra Mosè e Giosuè, contiene già in nuce gli elementi fondamentali di una relazione di paternità spirituale: Mosè trasmette a Giosuè gli ordini di Dio (cf. Dt 3,21-28), gli assicura che il Signore camminerà davanti a lui, non lo lascerà e non lo abbandonerà (cf. Dt 31,8 e 34,9). Ascoltando Giosuè ormai si ascolta Mosè: ecco la trasmissione, l’autentica traditio da padre a figlio, che ispira il celebre assunto con cui si aprono i Pirqè Avot, i Detti dei padri della tradizione rabbinica: «Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti, e i profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea» (Mishna Avot 1,1).
Se con Mosè e Giosuè si ha il prototipo della relazione maestro-discepolo, i padri guardavano soprattutto al modello offerto dal racconto biblico della vocazione di Samuele, mediata dal suo maestro Eli.Mentre Samuele dorme presso l’arca del Signore, per tre volte si sente chiamare per nome; solo alla terza volta Eli comprende e gli dice: «Se ti si chiamerà ancora, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”» (1Sam 3,9). È un’affermazione straordinaria che riassume in sé mirabilmente il movimento della preghiera e, più in generale, della nostra relazione con Dio: l’ascolto è già preghiera e ha un primato assoluto in quanto riconosce l’iniziativa di Dio. Eli nella sua povertà compie l’essenziale: si fa mediatore della parola di Dio per Samuele e lo aiuta a discernerla. Questa virtù del discernimento, che comporta per chi lo esercita un decentramento del proprio io di fronte alla Parola di Dio, è la virtù che la tradizione riconoscerà come il cardine della paternità spirituale: se il padre spirituale assume la propria debolezza e nella piena coscienza dei propri limiti è disposto a mettersi con fedeltà al servizio del Signore e del discepolo, anche attraverso la sua pochezza il Signore farà passare la sua voce. A Eli va il grande merito di aver compiuto ciò che più tardi Palamone esprimerà così al giovane Pacomio: «Sarò pronto nei limiti della mia debolezza a soffrire con te finché tu conosca te stesso» (Vita bohairica di Pacomio 10).
L’ultimo grande exemplum veterotestamentario di paternità spirituale, quella di Elia nei confronti diEliseo, testimonia, nella laconicità del racconto di vocazione del discepolo, che è la parola di Dio, sovrana e pienamente efficace, a suscitare la chiamata e a sostenere la risposta: Eliseo «si alza e segue Elia, entrando al suo servizio» (cf. 1Re 19,21), «versandogli l’acqua sulle mani» (cf. 2Re 3,11), cioè condividendo con lui l’intimità di una vita comune. Come già aveva notato la tradizione rabbinica («Non si dice: “Studiò”, ma “Versò”; da qui risulta che la pratica è più importante dello studio teorico», Talmud babilonese Berakot 7b), e come diranno a più riprese i padri del deserto, è la condivisione quotidiana dell’esistenza la fonte più sicura di insegnamento per il discepolo. Che cos’è in fondo il contenuto della paternità spirituale? È la trasmissione dello Spirito: «Lo spirito di Elia si è posato su Eliseo!» (2Re 2,15), il padre trasmette al figlio il proprio spirito, inestricabilmente connesso con lo Spirito di Dio, fonte di vita in abbondanza e vero protagonista della vita spirituale.
Nel Nuovo Testamento la chiamata che Gesù rivolge ai dodici affinché abbandonino casa, famiglia e campi per «stare con lui» (Mc 3,14), rinnova e radicalizza quanto era stato vissuto da Elia ed Eliseo: ormai non c’è nemmeno più il tempo per congedarsi da quelli di casa. Gesù si rivolge ai discepoli chiamandoli «figli» (tékna: Mc 10,24) o «piccoli figli» (teknía: Gv 13,33; paidía: Gv 21,5), così come farà anche Giovanni verso i cristiani della sua comunità (teknía: 1Gv 2,1.12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21). Tutta la vita comune di Gesù con i suoi può essere interpretata come un paziente lavoro mediante il quale egli cerca di narrare loro il volto di Dio e di generarli quali «figli del Padre che è nei cieli» (Mt 5,45), «figli del Regno» (Mt 13,38): nessuna autoreferenzialità da parte sua, ma la chiara coscienza di avere tutto ricevuto dal Padre e, di conseguenza, la gioia di restituirgli ogni cosa e ogni relazione. Per questo con grande intelligenza l’autore della Lettera agli Ebrei può mettere in bocca a Gesù asceso al cielo le parole del profeta Isaia: «Ecco, io e i figli che Dio mi ha dato» (Eb 2,13; cf. Is 8,18); nasce qui la tradizione patristica sulla “paternità del Cristo”, che trova un’eco anche nella Regula Benedicti (II,1-3), e dice la coscienza del fondamento cristologico che i padri riconoscevano alla prassi della paternità spirituale.
Questa lettura può apparire paradossale, se si considera che Gesù nel vangelo secondo Matteo afferma con forza: «Non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo» (Mt 23,9). Tuttavia questo detto non va inteso in senso letteralistico, bensì compreso in profondità: la fonte di ogni paternità è Dio e ogni paternità umana, inclusa quella spirituale, discende da lui, è donata per partecipazione alla sua. In questo senso è possibile scorgere la maternità e la paternità spirituale in credenti che non se la arrogano indebitamente, ma ne sono testimoni tra i fratelli per dono esclusivo di Dio; in persone che, come Giovanni il Battista, conducono altri a Cristo e poi escono di scena, pronte a diminuire affinché Cristo cresca (cf. Gv 3,30). È così che lo stesso Paolo, che più di ogni altro chiama in causa il rapporto di paternità spirituale nei confronti dei suoi discepoli, non è un trasgressore delle parole di Gesù: la trasmissione del Vangelo di Dio e di Gesù Cristo costituisce il metro oggettivo e determinante delle relazioni tra Paolo e i suoi figli spirituali: “E sapete anche che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi” (1Ts 2,7-8.11-12).
Paolo diventa così il modello emblematico del padre spirituale, reso padre dalla fecondità del Vangelo, della Parola che per primo ha accolto in sé come seme e fonte di vita. Solo da questo essere radicato nel Vangelo discende la sua capacità di chiamare altri a una nuova nascita, di destarli alla vita secondo Dio: ecco il «senso nascosto» ravvisato da Origene in 1Cor 4,15: “Anche se aveste mille maestri, non avete però molti padri; io vi ho generato”. Nessun protagonismo deve dunque animare il padre spirituale, ma la chiara consapevolezza che egli è chiamato ad essere una sequentia sancti Evangelii, un brano vivente di Vangelo per i suoi figli. Questo comporta una dura lotta, una fatica: «O figli miei, che di nuovo partorisco nel dolore, finché non sia formato Cristo in voi» (Gal 4,19). Ecco lo statuto paradossale della paternità spirituale: il padre soffre per una gestazione di Cristo che spetta al figlio condurre. Ma prima o poi viene il giorno in cui il parto si compie: quando il figlio diviene «un uomo maturo, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13), allora il padre deve farsi umilmente da parte. Il suo compito è terminato: da quel momento sarà Cristo, il terzo in ogni relazione di paternità spirituale, a guidare in prima persona il figlio, a condurlo nel cammino della vita.
Su questo fine essenziale si misurano anche le pratiche specifiche che la tradizione ha riconosciuto al ministero della paternità spirituale, come l’apertura dei pensieri (exagoreusis) al proprio padre spirituale, affinché questi possa discernervi ciò che è secondo Dio, secondo la piena umanità e libertà di colui che si è affidato alla sua guida spirituale. Di qui anche la vigilanza che occorre avere verso gli abusi nell’esercizio di quest’arte delicatissima, quando viene conculcata la libertà della persona, trasformando un cammino di liberazione in una via senza uscita. Rischi e pericoli che le Chiese ortodosse condividono con i cristiani di Occidente, come ha mostrato il metropolita romeno Serafim di Germania nella relazione conclusiva su “Paternità spirituale e mondo contemporaneo”.
La paternità spirituale, che la tradizione ortodossa ha saputo custodire e approfondire come vivente prassi della trasmissione della fede, è diventata così l’occasione di misurare l’unità che le Chiese già sperimentano nella costante preoccupazione della trasmissione della vita cristiana, della vita di fede come il bene più prezioso, viva traditio del depositum fidei che si rinnova nell’oggi, e che sempre più ha bisogno di padri e madri spirituali, che sappiano guidare nella libertà e per amore, e con infinita pazienza, alla vita in Cristo, alla vita secondo Dio, «il Padre dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome» (Ef 3,14-15).
Enzo Bianchi
Pubblicato su: Osservatore Romano