20 luglio 2008
di ENZO BIANCHI
Pietre e colori del Kosovo parlano ancora, ci narrano di un amore più forte della morte, di un’umanità che insieme al creato geme e soffre in attesa della redenzione cosmica
Avvenire, 20 luglio 2008
A cavallo tra gli anni sessanta e settanta ho avuto l’occasione, e forse anche l’incoscienza, di recarmi a più riprese a Istanbul e al Monte Athos attraversando in auto quell’insieme di popoli e di fedi che era la Jugoslavia: il percorso propedeutico ideale per compiere il pellegrinaggio alla Santa Montagna perché consentiva di arrivare al cuore dell’ortodossia attraversando una terra che all’ortodossia aveva dato il cuore, il Kosovo.
Così ho conosciuto quella regione matrice della Serbia cristiana, ho visto edifici di pietra e affreschi di rara bellezza, ho incontrato sguardi di intensità e luminosità uniche, ho imparato ad amare una chiesa fatta di pietre secolari e di pietre vive, una chiesa sofferente ma consapevole delle ricchezze del proprio passato: un tesoro fatto non solo di monumenti unici al mondo, ma di uomini e donne semplici, che nella povertà e nel nascondimento attestavano la speranza che abitava i loro cuori come i cuori dei loro antenati.
Pec, Gracanica, Decani, Prizren, Ravanitza, Zica: nomi che ora richiamano bombardamenti indiscriminati, angherie, fughe, ritorni e vendette, dislocamenti di militari, truppe di interposizione, pattugliamenti e imboscate. Nomi che invece dovrebbero rievocare secoli di fede cristiana, luoghi che dovrebbero rendere nuovamente viva la speranza di generazioni di povera gente capace di usare tutte le proprie sostanze per colorare di lapislazuli il cielo attorno ai propri santi o di cobalto il manto del proprio Signore. Molti di questi tesori sono stati irrimediabilmente distrutti in questi ultimi anni di guerra e di tensioni ininterrotte, vandalismi sistematici hanno violato la sacralità di un luogo per violare la sacralità della persona umana che quel luogo venerava; raffiche di proiettili che non potendo più uccidere i corpi si sono accanite a mandare in briciole i simboli della fede che quei corpi sosteneva. E anche quelli che, in un tardivo soprassalto di dignità, sono stati salvati, restano ora isolati, relitti difesi da carri armati, privi del contatto vivo con la fede dei semplici che sola potrebbe ridare loro la vita, orfani dei canti e del profumo d’incenso che ne facevano una finestra sul cielo.
Le pietre e soprattutto gli affreschi dei monasteri del Kosovo avevano già conosciuto nei secoli scorsi l’affronto della rabbia violenta del nemico: chi oggi fissa incredulo il proprio sguardo sul volto di pace delle icone cui furono cavati gli occhi non può non interrogarsi su chi sia davvero rimasto accecato da tanto gratuito disprezzo, se il Signore “amante degli uomini” che volgeva su di loro il suo sguardo misericordioso dal catino dell’abside o non piuttosto il feroce combattente senza pace nel cuore, nella mente e nelle mani che quegli occhi di pietra volle cavare.
Eppure, nonostante tutto, pietre e colori del Kosovo parlano ancora, ci narrano di un amore più forte della morte, di un’umanità che insieme al creato intero geme e soffre in attesa della redenzione cosmica: basta saper ascoltare il loro sussurro, il loro sommesso annuncio di pace che a volte si fa grido lacerante perché “se taceranno i piccoli, grideranno le pietre”!
Enzo Bianchi
Pubblicato su: Avvenire