Pubblicato su: FAMIGLIA CRISTIANA - giugno 2010
di ENZO BIANCHI
I cristiani hanno una parola in merito all’accoglienza dello straniero, una parola che viene loro dal Vangelo e che li chiama a rendere conto della speranza che abita i loro cuori?
È sempre più frequente trovare nei media l’eco, a volte ingigantita, della voce di amministratori locali che usano nei confronti degli immigrati gli stessi stereotipi di accuse che gli italiani all’estero si sono sentiti rivolgere per oltre un secolo: dalla naturale propensione alla delinquenza a usi e costumi intollerabili secondo gli autoctoni. Forse chi riveste un ruolo politico o amministrativo pensa così di dar voce ai sentimenti dei cittadini che rappresenta, mentre in realtà innesca una spirale perversa che alimenta gli istinti più irrazionali e complica ulteriormente la difficile armonizzazione della convivenza civile.
Ma i cristiani hanno una parola in merito all’accoglienza dello straniero, una parola che viene loro dal Vangelo e che li chiama a rendere conto della speranza che abita i loro cuori? E possono ricercare una prassi quotidiana e perseguire una visione della polis che tenga conto di questa parola? I cristiani, a lungo considerati essi stessi “stranieri” rispetto alla cultura dominante e “pellegrini” rispetto ad appartenenze radicate nel territorio, hanno sempre avuto al cuore della loro etica l’accoglienza dello straniero, del pellegrino, del viandante, secondo l’identificazione annunciata dal loro Signore: “ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt 25,35). Ma per affrontare i problemi legati all’immigrazione nell’odierna situazione socio-economica dei nostri paesi occidentali c’è bisogno di creatività e audacia, di coraggio nell’addentrarsi nei terreni poco esplorati dell’integrazione e della convivenza tra diversi, di discernimento su una realtà estremamente complessa come quella della globalizzazione. Tuttavia il discernimento fondamentale che un cristiano deve compiere è quello di riconoscere nel volto dell’altro la presenza di Cristo: l’esigenza evangelica dell’amore persino per i nemici, l’esortazione di Gesù a farsi prossimo di chi è nella sofferenza, l’esempio della primitiva comunità di Gerusalemme in cui non c’era nessun bisognoso perché tutto era messo in comune restano infatti per il cristiano richiami costanti – e mai pienamente soddisfatti – a rendere la propria condotta degna di un autentico discepolo del Signore Gesù. Il cristiano sa che anche sul rapporto che intrattiene con lo straniero sarà giudicato, perché Gesù ha profetizzato: “Venite, benedetti, perché ero straniero e mi avete accolto!”.