Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

2010: un destino comune

03/01/2010 00:00

ENZO BIANCHI

Riviste 2010,

2010: un destino comune

Famiglia Cristiana

Famiglia Cristiana - 3 gennaio 2010

 

di ENZO BIANCHI


Credo non ci sia miglior augurio di vedere cessare l’imbarbarimento quotidiano e riguadagnare terreno la solidarietà e la consapevolezza di costituire un’unica comunità umana

Cosa attende un cristiano 

 

Lo schiudersi di un nuovo anno civile suscita sempre un intrecciarsi di bilanci e di attese, di constatazioni e di promesse, di risultati e di speranze. Nemmeno i cristiani si sottraggono ormai a questo esercizio, nonostante l’anno liturgico inizi oltre un mese prima e sia segnato proprio da ben altra attesa, quella decisiva per un credente: la venuta di Cristo e del suo regno. E nonostante un altro sia il tempo in cui celebrare la vita nuova che rinasce dalle tenebre della morte: la Pasqua di risurrezione di Gesù Cristo. Ma allora, proprio in questo frangente che si pone tra l’invocazione “Vieni, Signore Gesù!” e la buona notizia “Il Signore è risorto!”, cosa è lecito sperare ai cristiani? Quali sono le attese che possono “fare segno”, rimandare all’attesa di cieli nuovi e terra nuova e, al contempo, essere condivise con chi non è credente?

 

Per il nostro paese e la sua prosperità autentica – non quella dettata dagli indicatori economici, ma dalla qualità della vita umana e dei rapporti – credo non ci sia miglior augurio di vedere cessare l’imbarbarimento quotidiano e riguadagnare terreno la solidarietà e la consapevolezza di costituire un’unica comunità umana. Il nostro tessuto sociale non può sopportare ancora a lungo le tensioni e le lacerazioni che lo stanno affliggendo da tempo: barbarie chiama infatti altra barbarie e l’abitudine alla sopraffazione dell’altro, al disprezzo del diritto, all’incuranza verso la sofferenza non fa altro che precipitarci sempre più nel sottobosco di una giungla di comportamenti dettati solo dal proprio tornaconto, per di più immediato. Dobbiamo auspicare la ritrovata coscienza di un comune destino, la capacità di interpretare e vivere gli inevitabili conflitti come opportunità di crescita condivisa e non di contrapposizione letale per l’avversario: il superamento delle differenze non può avvenire con l’eliminazione dell’altro, ma con il confronto e la scoperta della complementarietà e della ricchezza che scaturisce dalla pluralità di voci, di convinzioni, di usanze, di culture. Questa auspicabile unità plurale nulla ha a che fare con un “pensiero unico” o una dittatura della maggioranza, ma è invece la riscoperta delle radici storiche, civili, culturali e religiose del nostro paese che in tempi ben più difficili hanno saputo trasformare le inevitabili rivalità in una convivenza civile degna di tal nome, aprendosi al contempo alla riconciliazione a livello europeo.

 

E come non augurarci, da cristiani, che la convivenza tra diversi, la solidarietà umanizzante, il rispetto della dignità di ogni persona e di ogni anelito di vita non si estenda anche a popoli e paesi ancora lacerati dalle guerre e dalla piaga della fame? L’assenza di pace, di giustizia, di cibo e di medicine patita da intere popolazioni e generazioni è uno scandalo che grida al cospetto di Dio, ma anche al cospetto di ogni persona la cui natura umana è intimamente legata al riconoscere l’altro come proprio fratello o sorella in umanità. Ma anche e soprattutto in questo campo della equa distribuzione delle risorse, gli auguri e le attese non bastano: sono necessari gesti concreti e quotidiani, un cambiamento di mentalità, una indisponibilità ad accettare lo statu quo e il sopruso che lo ha generato e che lo mantiene tale. Solo da un convinto impegno per la pace, la giustizia e la custodia del creato possono dischiudersi orizzonti di speranza per quelle popolazioni che “giacciono nelle tenebre e nell’ombra della morte”. La crisi globale sembra averci atrofizzati nel nostro prenderci cura dei più bisognosi, sia quelli accanto a noi che quelli lontani dagli occhi e dal cuore, rendendoci incapaci di aperture che un tempo ci erano quasi connaturali. Mentre invece proprio questa interconnessione dagli effetti economici perversi dovrebbe stimolarci a invertire il volano delle energie che si sprigionano dal nostro legame reciproco: anche la giustizia, l’eguaglianza, il rispetto che saremo capaci di testimoniare nel nostro quotidiano possono essere contagiosi e dilatarsi fino a influenzare realtà da noi apparentemente lontanissime.

 

Certo, anche la testimonianza che i cristiani danno come comunità di credenti è determinante per la autentica comprensione della qualità dell’attesa dei cristiani. Come pensare che sia santificato il nome del Padre se noi lo offuschiamo con il nostro comportamento; come invocare “venga il tuo Regno” se non lasciamo che Cristo regni su di noi e tra di noi; con che sfrontatezza chiediamo il pane quotidiano se lo neghiamo a chi lo attende dalla nostra mano; come confidare nel perdono dei nostri peccati se chiudiamo il cuore al fratello? 

 

Ai miei occhi la chiesa oggi è sempre più divisa, o per una contrapposizione battagliera di alcune minoranze loquacissime, o per una lontananza sempre più profonda, silenziosa, sommersa di componenti ecclesiali che fanno il loro cammino senza tener conto della chiesa stessa. È una situazione che mi fa soffrire e che non avrei pensato di dover constatare nella mia anzianità, dopo decenni di speranze in una comunione vera, visibile, vissuta in nome dello Spirito santo che aveva alitato nella chiesa con l’evento del concilio. 

 

Quest’anno l’attesa è allora quella di una chiesa sempre rinnovata nella fedeltà al suo Signore, una chiesa in cui la ricerca della comunione piena e visibile sia perseguita come il “segno” grande del comandamento nuovo dell’amore, una chiesa dove le diversità siano compaginate in unità dalla carità, dove la proclamazione della verità avvenga con parresia e senza arroganza, con l’umiltà di chi è consapevole di rendere un servizio ai propri fratelli in nome dell’unico Signore, “mite e umile di cuore”. È attendere troppo da noi stessi e dagli altri? E se ci convincessimo ad attendere questo miracolo da Colui cui nulla è impossibile? Forse scopriremmo l’essere umano così come Dio lo ha sempre pensato e voluto, a sua immagine e somiglianza, un uomo somigliantissimo al Figlio di Dio.