Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Liturgia, tradizione, riforma

15/11/2007 00:00

ENZO BIANCHI

Riviste 2007,

Liturgia, tradizione, riforma

La Rivista del Clero Italiano

Pubblicato su: La Rivista del Clero Italiano - ottobre 2007

 

di ENZO BIANCHI


In questi quarant’anni del post-concilio, le chiese hanno percorso un lungo cammino nell’attuazione della riforma liturgica 

Queste pagine del priore di Bose sono ricche di risonanze affettive. Enzo Bianchi, infatti, sul messale di Pio V si è formato, è cresciuto nella fede, nell'intelligenza eucaristica e nella vita spirituale. Da quella liturgia è 'migrato' verso la liturgia della riforma conciliare, che meglio gli ha consentito di offrire a Dio il proprio culto spirituale con la Chiesa tutta, senza mai pensare che si fosse data rottura tra il messale di Pio V e quello di Paolo VI, bensì crescita e progresso. Questo è stato il percorso di una generazione, anche di preti. In questa consapevolezza si radicano le considerazioni dell'Autore sul motu proprio, sul suo retto uso e sui possibili abusi, sulle questioni aperte della sua recezione, nell'auspicio che il generoso gesto di Benedetto XVI sia raccolto dai tradizionalisti, aiutandoli a deporre durezze contrappositive e a ritrovare la comunione con la Chiesa.

 

In questi quarant’anni del post-concilio, le chiese hanno percorso un lungo cammino, spesso faticoso, nell’attuazione della riforma liturgica, hanno registrato anche qua e là abusi e contraddizioni allo spirito dell’autentica liturgia cattolica ma, come ha affermato Giovanni Paolo II nel 1988, “questo lavoro è stato fatto sotto la guida del principio conciliare: fedeltà alla tradizione e apertura al legittimo progresso; perciò si può dire che la riforma liturgica è strettamente tradizionale, ‘secondo i santi padri’” (1). Di conseguenza, nel chiarire le possibilità offerte ai tradizionalisti già allora Giovanni Paolo II precisava che “la concessione dell’indulto non è per cercare di mettere un freno all’applicazione della riforma intrapresa dopo il concilio” (2).

 

Volontà di riconciliazione

 

Il motu proprio di Benedetto XVI Summorum pontificum ha suscitato un dibattito che finora si è mostrato non polemico ma di grande qualità: conferenze episcopali, singoli vescovi, teologi e liturgisti hanno analizzato con grande spirito di pace e volontà di riconciliazione con i tradizionalisti scismatici i problemi e le derive che potrebbero inoculare contrapposizioni e ulteriori divisioni tra i cattolici (3). 

 

Dunque questo motu proprio va accolto come un atto di Benedetto XVI teso a metter fine allo scisma aperto dai lefebvriani, a creare le condizioni per un loro rientro nella comunione cattolica, e a venire incontro alla “sofferenza” di altri pur restati in comunione con Roma. Il papa è consapevole che più passano gli anni, più le posizioni si induriscono, più ci si abitua allo scisma e si affievolisce il desiderio di una reciproca riconciliazione tra chiesa e scismatici. È in questa prospettiva che il documento va compreso e recepito, come dice la lettera personale del papa che lo accompagna: “fare tutti gli sforzi affinché, a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente”. 

 

Per questo il papa autorizza con liberalità la celebrazione della messa conformemente al messale detto di Pio V (quello riedito nel 1962, prima della celebrazione del concilio e perciò detto anche “di Giovanni XXIII”) sicché ora “ogni sacerdote cattolico ... può usare o il Messale Romano promulgato nel 1962 dal B. Giovanni XXIII, oppure il Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970 ... senza alcun permesso, né della Sede apostolica, né del suo Ordinario”, cioè il vescovo. Così, con questa nuova disposizione si esce dall’indulto concesso da Giovanni Paolo II nel 1984 e ribadito nel 1988, perché allora si dava la possibilità di celebrare la messa detta di Pio V se il vescovo lo permetteva, mentre ora vi è la possibilità di celebrarla e il vescovo non può proibirla. La forma della messa di Pio V non è più dunque “eccezionale” ma è “straordinaria”, non è più una deroga alle regole ma permessa dalle regole. Scrive testualmente il papa: “Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è l’espressione ordinaria della ‘legge della preghiera’ ... tuttavia il Messale promulgato da S. Pio V ... deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa ‘legge della preghiera’ ... Queste due espressioni sono due usi dell’unico rito romano”. Tuttavia con questa nuova disposizione, il papa non vuole assolutamente che “venga intaccata l’autorità del concilio” o che “venga messa in dubbio la riforma liturgica”: questa dichiarazione sincera, convinta e ben illustrata, deve essere presa come principio necessario per chi vuole vivere la comunione ecclesiale cattolica.

 

I tradizionalisti

 

Ma per chi è stata promulgata questa nuova disposizione? La risposta non è semplice perché quelli che chiedono la possibilità di praticare il messale di Pio V sono una galassia numericamente ridotta ma molto variegata. In tutto il mondo questi cattolici con sensibilità tridentina sono attorno ai 300.000/400.000 con circa 600 preti, sul totale di un miliardo e 200 milioni di cattolici, e di essi circa la metà appartiene alla porzione scismatica dei seguaci di mons. Lefebvre. In Francia, la nazione in cui i tradizionalisti sono più presenti, il loro numero ammonta, secondo stime dei loro stessi ambienti, a circa 25.000, molto meno dell’1% dei cattolici: una goccia d’acqua, si potrebbe dire, anche se il numero dei presbiteri è di 140, proporzionalmente più alto rispetto alla cifre del clero diocesano (4). Nel motu proprio si pensa certo ai seguaci di Lefebvre – per quali, afferma la lettera, “la fedeltà al messale antico divenne un contrassegno esterno” – ma, almeno a me pare, c’è attenzione soprattutto ai tradizionalisti in comunione con Roma, quelli legati al rito diventato per i più anziani di loro familiare fin dall’infanzia. 

 

Accanto a questi cattolici, scismatici o no, all’orizzonte affiorano anche giovani preti che vorrebbero ritornare all’antico rito, alcuni movimenti ecclesiali che, ignorando la Scrittura e la liturgia e nutrendosi soprattutto di devozioni, auspicano una ripresa dell’identità fondamentalista cattolica, alcuni gruppi di pressione che vorrebbero servirsi della messa di Pio V per le loro battaglie politiche e culturali, e infine vi è una deriva piccola ma appariscente di confraternite e ordini cavallereschi vari che attendono di poter celebrare in latino per rinvigorire il loro folklore e ridare lustro alle loro livree medievali (5). 

 

Ma qui sorge una serie di domande che esigono una risposta evangelica e una responsabilità conforme al sensus ecclesiae da parte di tutti: vescovi, presbiteri, fedeli cattolici. Non è che questi gruppi si nascondano dietro i veli della ritualità post-tridentina per non accogliere altre realtà assunte oggi dalla chiesa soprattutto attraverso il concilio? È l’interrogativo che si è posto il card. Danneels di Bruxelles: questa rivendicazione della messa di Pio V “non è una locomotiva che trascina con sé vagoni nei quali ci sono cose nascoste?”. Il messale di Pio V non rischia di essere il portavoce di rivendicazioni di una situazione ecclesiale e sociale che oggi non esiste più? La messa di Pio V non è per molti una messa identitaria? E non diviene così una messa preferenziale, privilegiata rispetto a quella celebrata dagli altri fratelli, unicamente perché assicura un’identità del passato e nutre la nostalgia di una cristianità ormai finita? La preferenza accordata a questa messa non contiene forse, in questi ambienti tradizionalisti, la convinzione che la liturgia di Paolo VI sia mancante di elementi essenziali alla fede? . 

 

C’è oggi troppa ricerca di segni identitari, soprattutto in certi intellettuali che si dicono non cattolici e non credenti e misconoscono il mistero liturgico. C’è troppo gusto per le cose “all’antica”, soprattutto in certe confraternite che oggi nascono, si moltiplicano e sono ostentate nelle liturgie cattoliche in nome di una “scena religiosa” e non certo di quello della ordinata composizione del corpo di Cristo che è l’assemblea liturgica. Come tacere il fatto che oggi i religiosi e le religiose non trovano un posto specifico né nelle liturgie né nelle processioni, mentre appaiono in posti centrali, con scanni riservati, cavalieri e dame che pensavamo confinati alle rievocazioni sceniche del passato? E ancora, perché alcuni giovani – cui anche il papa accenna nella lettera che accompagna il motu proprio – che non sono nati nell’epoca post-tridentina e non hanno mai praticato come loro messa “nativa” quella pre-conciliare, vogliono un messale sconosciuto? Cercano forse un messale lontano dal cuore ma praticato dalle labbra? E se la celebrazione della messa risponde alle sensibilità, ai gusti personali, allora nella chiesa non regna più l’ordo oggettivo, ma ci si abbandona alle scelte soggettive dettate da emozioni del momento. Non c’è forse il rischio che questo soggettivismo incoraggi ciò che Benedetto XVI denuncia come obbedienza alla “dittatura del relativismo”? 

 

Benedetto XVI non vuole certamente questo. Infatti egli aveva affermato, partecipando a un convegno dei tradizionalisti a Fontgombault: 

 

"Personalmente, io fin dall’inizio sono stato per la libertà di continuare a usare l’antico messale per un motivo semplice: si cominciava già allora a parlare d’una rottura con la chiesa preconciliare … Questo d’altronde è ora lo slogan dei seguaci di Lefebvre: affermano che ci sono due chiese, la grande rottura è infatti visibile nell’esistenza di due messali in rottura tra loro. A me sembra essenziale e fondamentale riconoscere che i due messali sono i messali della chiesa e della chiesa che resta sempre la stessa … Per sottolineare che non c’è rottura essenziale, che la continuità e l’identità della chiesa esistono, a me sembra indispensabile mantenere la possibilità di celebrare secondo l’antico messale, come segno dell’identità permanente della chiesa … Mi sembra chiaro che nel diritto il messale di Paolo VI è il messale in vigore e che il suo uso è normale … Io ho sovente affermato: se c’era il rito domenicano, se c’era e c’è ancora il rito ambrosiano, perché non anche – diciamo – il rito di Pio V? Ma c’è un problema molto reale: se l’ecclesialità diventa un problema di libera scelta, se ci sono nella chiesa delle chiese rituali scelte secondo un criterio di soggettività, questo crea un problema. La chiesa è edificata sui vescovi secondo la successione apostolica nella forma delle chiese locali, dunque secondo un criterio oggettivo. Io sono in questa chiesa locale e dunque non cerco amici ma trovo i miei fratelli e le mie sorelle, e i fratelli e le sorelle non si cercano ma li si trova. Questa situazione di non arbitrarietà della chiesa in cui mi trovo, che non è una chiesa secondo la mia scelta ma la chiesa che si presenta a me, è un criterio molto importante … Aprire ora la possibilità di scegliere la propria chiesa “à la carte”, questo potrebbe realmente ferire la struttura della chiesa. Si deve cercare un criterio non soggettivo per aprire la possibilità dell’uso dell’antico messale. La Santa Sede deve aprire a tutti i fedeli la possibilità di conservare questo tesoro, ma d’altra parte deve conservare e rispettare la struttura episcopale della chiesa "(6). 

 

Una domanda di altro tipo sorge a questo punto: perché coloro che hanno continuato a chiedere il rito di Pio V si sentono, secondo le loro stesse parole, i “salvatori della chiesa romana”? Salvatori rispetto a cosa, a un concilio ecumenico presieduto dal vescovo di Roma? Perché affermano: “Vinceremo ... tutta la chiesa tornerà all’antica liturgia!”? Questo non è un cammino di riconciliazione e di comunione, ma di rivincita, di condanna dell’altro, di rifiuto di riconoscere le colpe rispettive... Non si risveglia una serie di rapporti di forza in cui c’è chi perde e chi vince? Questo risponde a un’ottica mondana, non a un’ottica evangelica! Non è un caso che Benedetto XVI chieda che nell’applicazione del motu proprio si evitino litigi (discordiam vitando) e si promuova la comunione (unitatem fovendo).

 

Inestimabile sacramentum

 

Il messale di Pio V, ci tengo a dirlo con chiarezza, è il messale della mia iniziazione e della mia crescita cristiana, da me sempre sentito come inestimabile sacramentum. L’ho praticato tutti i giorni dai sei ai ventitre anni e testimonio con gioia che mi ha fatto crescere nella fede, nell’intelligenza eucaristica e nella vita spirituale. Lo conosco ancora a memoria, per intero e in latino, dal In nomine Patris fino al Sancte Michaele Arcangele; lo conosco “con il cuore” e perciò mi sento legato ad esso vivendo anche attraverso di esso la comunione diacronica di tutta la chiesa. 

 

Ma devo confessare che questo mio affetto per la messa di Pio V è soprattutto dovuto al fatto di aver conosciuto il latino fin da bambino e di aver ricevuto un’educazione liturgica straordinaria ad opera di un parroco particolarmente sensibile. Il messale tridentino praticato ogni giorno e con convinzione – in modo tale che mente, cuore e voce vibrino all’unisono (mens concordet voci) – in realtà mi aveva fornito un ambiente teologico in cui la chiesa era un edificio gerarchico con qualità, per così dire, “dionisiaca” (7), era una realtà celebrante insieme alla chiesa celeste il santo e grande “sacrificio della croce”; mi aveva offerto un ambiente devozionale in cui la messa era gustata soprattutto personalmente e privatamente, permettendo così l’esercizio degli affetti più profondi verso il Signore e le sante realtà, nonché una possibilità diversificata di pregare e di vivere i tempi liturgici e le feste dei santi; mi aveva apprestato un ambiente estetico in cui canti, musica, arte figurativa, bellezza dei paramenti mi narravano la gloria di Dio. Non ho nessuna reazione verso quella liturgia ma, pur senza negarla o disprezzarla, ho anche la coscienza che ho dovuto operare una migrazione verso una liturgia, quella della riforma conciliare, che meglio ancora mi ha permesso di offrire a Dio un culto spirituale con tutta la chiesa; non ho mai pensato, quindi, che ci fosse una rottura tra il messale di Pio V e quello di Paolo VI: crescita, progresso sì – come dice il papa nella lettera – ma rottura no! Posso dire, con il card. Ratzinger, che “la messa tridentina era come un affresco coperto” (8), coperto per molti ma non per me! La mancanza che ho soprattutto registrato nel messale tridentino era la scarsità di parola di Dio, considerate le letture bibliche proclamate nella liturgia. Non dimentico infatti che tutto l’anno, escluse le domeniche e le feste, ogni giorno ho sentito e proclamato in latino sempre le stesse letture della messa dei morti: Ap 14,13 e Gv 6,51-55, un versetto dell’apostolo e cinque versetti del vangelo! 

 

Ho partecipato recentemente alcune volte – da giovane avrei detto “assistito” – alla messa celebrata secondo l’antico rito e purtroppo ho dovuto constatare che il celebrante, anche se eminente e più anziano di me, a tratti era incerto nel proseguire la celebrazione, e disattendeva spesso le indicazioni del messale... La mia generazione, l’ultima ad averlo praticato, sente quel messale come un monumento, un memoriale liturgico, un’architettura rituale completa e compatta; ma in ogni attaccamento alle cose – pur buone, ma sempre e solo sacramentali – ogni cattolico serio deve interrogarsi per non lasciare spazio a forme di idolatria. 

 

La Scrittura ci insegna che il serpente fatto forgiare da Dio per la guarigione del popolo di Israele è stato abbandonato per ordine di Dio perché ormai non più idoneo, ma anzi contraddittorio; e così è stato anche dell’arca dell’alleanza, del tempio di Gerusalemme... Occorre dunque interrogarsi su questo attaccamento, se è sincero, autentico, se è amore per le fonti e strumento di preghiera, oppure se è idolatrico e strumentalizzato per altri fini. Ci può essere un attaccamento al messale di Pio V in cui il mysterium fidei è totalmente assente; ci può essere un attaccamento al sacro che è profano! Da parte mia, confesso che ho sempre tenuto fino a oggi, e continuo a tenerla, una copia del messale di Pio V, nell’edizione del Lefevre, sul mio comodino: lo leggo e lo rileggo, soprattutto per gustare quella “sobrietà e misura” del rito romano, che in latino risplende con forza mirabile. Amo anche il canto gregoriano che ha ispirato peraltro i toni che noi monaci utilizziamo nella nostra opus Dei quotidiana. Potrei dire molte cose riguardo alla pratica della messa tridentina da parte dei fedeli, concordando con il card. Ratzinger quando affermava che “occorre ammettere che la celebrazione dell’antica liturgia si era troppo smarrita nello spazio dell’individualismo e del privato e che la comunione tra presbitero e fedeli era insufficiente” (9). Dunque nessun idealismo né sul messale né sulla sua pratica e, soprattutto non sia un messale a far guerra all’altro messale, perché così si sfascia la chiesa. Il messale non può essere “luogo di memoria” senza essere anche “luogo di comunione”. 

 

Proprio il messale di Pio V, nella sua verità efficace, ci rinvia e ci spinge alla “comunione nella storia” di un popolo in alleanza con Dio (Communicantes…) e alla nostra responsabilità oggi per la moltiplicazione del pane, secondo la formulazione del concilio di Trento: “affinché le pecore di Cristo non abbiano fame, affinché i piccoli non domandino del pane senza che nessuno lo condivida con loro, il santo concilio ordina ai pastori e a tutti quelli che hanno cura delle anime di spiegare frequentemente nel corso della celebrazione della messa uno dei testi letti e di rischiarare il mistero di questo sacrificio, soprattutto le domeniche e le feste” (10). Proprio in questa stessa logica è avvenuta la riforma voluta dal concilio Vaticano II e operata sotto la sapiente guida di Paolo VI. Il rito attuale è nient’altro che la riforma del rito di Pio V, e chi è fedele e in comunione con la chiesa che ha prodotto quel messale segue l’attuale liturgia riformata dalla chiesa, più precisamente da un concilio e da un papa di cui non si possono mettere in dubbio le intenzioni: Paolo VI non ha sconfessato il messale di Pio V, ma lo ha assunto e riformato, come avevano già fatto tanti papi negli ultimi secoli. La liturgia è il luogo privilegiato della tradizione e quando si rinnega o si mette in discussione la liturgia, di fatto o si privilegia un “tratto” della tradizione o lo si rigetta. 

 

Si dice che nella messa di Pio V c’era il senso del sacro, ma anche questo ci deve interrogare: “Quale sacro?”. La celebrazione del mistero avviene in diverse liturgie eucaristiche e chi può negare che avvenga anche nel nuovo rito di Paolo VI? Chi riducesse il senso del sacro alla distanza tra presbitero e fedeli o al numero di segni di croce tracciati dal celebrante o alle sue genuflessioni, o al silenzio muto dei fedeli durante la preghiera eucaristica sussurrata, o all’arcaicità della lingua latina e al suo non essere compresa dai più, scambia strumenti e segni per il mistero che in essi mai si identifica e mai si esaurisce. Ci vuole del tempo perché si instauri una ars celebrandi secondo il nuovo messale, ma questa non era sempre praticata nemmeno con il messale di Pio V: già allora altre erano le liturgie pontificali e altre le messe a volte celebrate in dieci, quindici minuti senza rispettare l’esigenza del mens concordet voci. Anche il card. Ratzinger in un’intervista a La Croix constatava: “erano minacce alla liturgia il rubricismo e il legalismo” (11).

 

Problemi aperti

 

Ma allora, quali problemi restano aperti? Va riconosciuto che la possibilità di celebrare secondo il messale di Pio V apre una situazione nuova nella chiesa cattolica latina. La liturgia romana è sempre stata celebrata in una sola espressione e se c’erano riti diversi, questi erano legati a una chiesa locale (come Milano per l’ambrosiano e Toledo per il mozarabico) oppure a ordini religiosi, come domenicani o certosini, ma in questo secondo caso le varianti rispetto al rito romano erano irrilevanti. Oggi poi c’è chi oppone i due messali e non accetta la piena autenticità e cattolicità del messale di Paolo VI. In questi decenni il messale di Pio V è stato usato dai tradizionalisti come clava contro quello di Paolo VI, quando invece tutto ciò che era nel messale di Pio V è compreso in quello di Paolo VI che lo ha solo aggiornato e accresciuto, senza rinnegare né tralasciare alcunché di fondamentale alla celebrazione del mistero eucaristico. 

 

Nella concessione offerta dal motu proprio è importante che la messa celebrata secondo il messale di Pio V non sia fonte di ferite al corpo di Cristo, né generi o alimenti una diffidenza rispetto al concilio Vaticano II e alla riforma liturgica. Purtroppo abbiamo dovuto sentire parole pesanti, secondo le quali “la riforma liturgica del Vaticano II non è mai decollata”, così come non possiamo dimenticare che tra i fautori del messale di Pio V c’è chi nel 1982 chiedeva in un editoriale sulla prima pagina di Avvenire, che il Vaticano II venisse declassato o almeno dimenticato, essendo solo un concilio “pastorale”. Del resto, mons. Fellay, successore di Lefebvre, responsabile della Fraternità San Pio X, ha dichiarato recentemente che “la liberalizzazione del messale di Pio V provocherà una guerra nella chiesa con una deflagrazione pari a quello della bomba atomica”. È bene ribadire che il contenzioso non riguarda il latino, perché questa resta la lingua ufficiale della chiesa cattolica “latina”, appunto, e in latino è sempre stato ed è tutt’oggi possibile celebrare da parte di qualsiasi presbitero secondo l’editio typica del messale di Paolo VI. Occorrerà dunque non generare nel popolo di Dio un dubbio profondo e una diffidenza rispetto al concilio e al papa che lo ha portato a termine e attuato. Dunque nessuna concorrenza aggressiva tra i due messali: la “permanenza” pacifica del nuovo messale deve spingere a un lavoro di approfondimento tra la “dionisiaca” liturgia tridentina e la liturgia del Vaticano II, più ispirata dall’ecclesiologia di comunione, soprattutto agostiniana. 

 

Non va neppure dimenticata una difficoltà che può essere sofferta nel cammino ecumenico, innanzitutto con gli ebrei e quindi con gli altri cristiani. Quanto agli ebrei, abbiamo già sentito le loro lamentele a causa delle espressioni presenti nella liturgia della croce del venerdì santo e nelle omelie patristiche inserite nel breviario, in cui gli ebrei sono assimilati a Judas mercator pessimus e vengono designati come “popolo incredulo, nemico e ingiusto”, più colpevoli di Pilato nella morte di Gesù. Ora, è vero che nel triduo pasquale il presbitero non può celebrare secondo il messale tridentino la propria messa “senza il popolo” (art. 2 del motu proprio), ma di questo divieto non si parla né per le comunità religiose (art. 3), né per le altre eventuali celebrazioni (art. 5, §§ 1, 2 e 3); qui vi è certamente un problema teologico, che il concilio Vaticano II, nella dichiarazione Nostra aetate ha chiarito rispetto al passato. Tuttavia su questo punto c’è molta confusione, anche in ambito cattolico, perché molti trovano irrispettosa la preghiera affinché gli ebrei riconoscano Gesù quale Messia: in verità questa preghiera è legittima, mentre non sono legittime espressioni antigiudaiche, di disprezzo e di condanna… 

 

Quanto ai cristiani delle altre chiese, essi sono chiamati “eretici e scismatici” e si implora il loro ritorno alla chiesa cattolica, perché “le loro anime sono ingannate dalla frode del demonio”. Qui c’è un vero problema, perché queste espressioni contraddicono sia la lettera che lo spirito del concilio Vaticano II, oltre che l’ecumenismo praticato fino a oggi dai papi e dai vescovi della chiesa cattolica. E poi chiediamoci anche: i cristiani della Riforma come leggeranno questa possibilità di un ascolto ridotto delle letture bibliche? E gli ortodossi cosa penseranno circa la mancanza dell’epiclesi pneumatologica nell’antico canone? Sapremo essere eloquenti con sapienza nei loro confronti, in modo da mostrare che non si vuole “tornare indietro”? 

 

Ma un aspetto che a nostro giudizio è ancora più importante è che l’autorità episcopale non deve assolutamente essere smentita dal motu proprio o dalla presenza delle celebrazioni del rito di Pio V. Il vescovo, infatti, è “il liturgo per eccellenza”, come si ribadisce nella Sacramentum caritatis

 

"Il vescovo è la guida, il promotore e il custode di tutta la vita liturgica. Tutto ciò è decisivo per la vita della chiesa particolare non solo in quanto la comunione con il vescovo è la condizione perché ogni celebrazione sul territorio sia legittima, ma anche perché egli stesso è il liturgo per eccellenza della propria chiesa. A lui spetta salvaguardare la concorde unità delle celebrazioni nella sua diocesi" (12). 

 

Deve dunque spettare al vescovo il discernimento e la decisione per la pratica del rito di Pio V, là dove ci sono necessità e desideri da parte dei fedeli. Si trovi dunque una regolamentazione che permetta ai vescovi di svolgere il ruolo loro attribuito dalla tradizione, dal concilio Vaticano II e dal Codice di diritto canonico vigente. Guai se l’autorità del vescovo fosse indebolita o non riconosciuta nella chiesa e se si verificassero derive “parrochistiche”. Il vescovo, che è servo della comunione nella chiesa locale, sempre in comunione con il vescovo di Roma, il papa, che presiede nella carità, cerchi con tutti i mezzi di raggiungere la piena comunione cattolica con tutti quelli che sono in situazione di scisma o di sofferenza, ma si ricordi che l’unità non può essere realizzata a qualsiasi prezzo, né a prescindere dalla sua autorità o al di sopra della sua responsabilità. I vescovi quindi lavorino soprattutto perché in occasione della messa crismale, dove si visibilizza l’unità tra vescovo e suo presbiterio, anche i “tradizionalisti” siano presenti perché unico è il corpo di Cristo, unico lo Spirito, unico il crisma con cui nel battesimo e nella cresima si è iniziati alla fede cattolica. E comunque a tutti sia chiesta l’accettazione del concilio Vaticano II, nel quale la chiesa ha confermato la sua fede e l’ha annunciata agli uomini (13). Se siamo appartenenti alla stessa chiesa, allora unica è l’eucaristia celebrata anche in riti diversi o espressioni diverse dello stesso rito che si riconoscono a vicenda, e uno deve essere il vescovo e il presbiterio attorno a lui. L’unità non può essere realizzata a qualsiasi prezzo, né a prescindere dall’autorità del vescovo in comunione con il papa. Questo nella piena consapevolezza che non si può risolvere un problema teologico con una risposta liturgica. 

 

È altamente significativa la ricezione a tutt’oggi del motu proprio e della lettera che lo accompagna: i vescovi si sono mostrati tutti obbedienti e non ci sono state contestazioni, nonostante la volontà di alcuni giornalisti di mettere in evidenza conflitti e dissidenze. Non solo, ma possiamo anche dire che alcune notificazioni sia di vescovi europei che di vescovi italiani alle loro chiese particolari mostrano grande sapienza pastorale e vero spirito di carità fraterna. I sentimenti del papa sono condivisi, potremmo dire, dai vescovi, e anche le precisazioni per l’applicazione pastorale del motu proprio sono di grande acribia. Basti leggere la dichiarazione di mons. Bagnasco, presidente della CEI, nella recente prolusione al Consiglio permanente: 

 

"La passione dell’unità deve muovere ogni cristiano e ogni pastore dinanzi alle prospettive che si aprono con il motu proprio. Non dunque ricerca di un proprio lusso estetico, slegato dalla comunità e magari in opposizione ad altri, ma volontà di includersi sempre di più nel mistero della chiesa che prega e celebra, senza escludere alcuno e senza preclusione ostativa verso altre forme liturgiche o nei confronti del concilio Vaticano II" (14).   

 

Rincresce invece che le dichiarazioni fatte fin qui dai tradizionalisti scismatici siano invece ancora di guerra. Mons. Fellay ha intonato il “Te Deum” in occasione della pubblicazione del motu proprio, ma ha anche precisato che è possibile vedere in esso “un’espressione di ‘riforma della riforma’”; egli ha inoltre aggiunto che il motu proprio “mostra come il dibattito tra Roma e la Fraternità San Pio X sia essenzialmente dottrinale” e che “essendo stata presa in considerazione [da Roma] la nostra costanza nel difendere la lex orandi, è dunque con la stessa fermezza che dobbiamo continuare, con l’aiuto di Dio, la lotta per la lex credendi, il combattimento della fede” (15). A commento di queste affermazioni i tradizionalisti hanno dichiarato in diverse forme che trovano comunque inaccettabile che nel motu proprio resti la superiorità del messale di Paolo VI su quello di Pio V, restando il primo l’espressione ordinaria della lex orandi della chiesa di rito latino: per loro non c’è obbedienza del nuovo messale alla lex credendi tradizionale cattolica (16)… La concezione della lex orandi sottostante a queste parole dimentica totalmente il carattere dinamico legato alla triplice referenzialità della Scrittura, della Tradizione e della liturgia e lo mummifica in un formalismo che dimentica che al cuore del culto cristiano non c’è un rito ma la relazione con Gesù Cristo. 

 

Noi attendiamo che i tradizionalisti esprimano con le parole e i gesti il loro amore per tutta la chiesa cattolica, che esprimano il loro rincrescimento per i libelli e le aggressività del recente passato. Non possono e non devono essere un ghetto nella chiesa, né a causa di diffidenza e disprezzo dei fratelli né per una loro presa di distanza dalla chiesa che riconosce il suo principio di unità nel ministero del vescovo di Roma, dunque dei papi in successione tra loro, da Pio XII a Benedetto XVI. Se vogliono la comunione, perché non partecipano una volta all’anno alla messa crismale del vescovo? La speranza di papa Benedetto XVI e anche nostra non sia dunque abortita! 

 

Il viaggio della barca della chiesa non è ancora giunto al suo termine e nessun porto può diventare una meta, ma solo un luogo di sosta e di transito: anche il messale di Pio V, anche quello di Paolo VI… Il card. Ratzinger, nell’intervista a La Croix già citata (17), affermava che “dichiarare una riforma della liturgia come impossibile sarebbe un dogmatismo assurdo”. C’è ancora un altro domani anche per la forma della liturgia. 


(1) Giovanni Paolo II, XXV annus (4 dicembre 1988) 4.
(2 ) Giovanni Paolo II, Udienza generale del 28 settembre 1990.
(3) Tra le molte le voci che sono intervenute, indichiamo solo quelle più impegnate e significative: Riccardo Barile o.p., “Il messale di san Pio V: tradizione e riforma” in I martedì di S. Domenico, giugno 2006; Id., “Summorum Pontificum, considerazioni” in Settimana, 2 settembre 2007, pp. 8-9; Manlio Sodi, Il messale di Pio VPerché la messa in latino nel terzo millennio?, Messaggero, Padova 2007; Id., Intervista a cura dell’Agenzia Zenit in Rivista liturgica 4/2007; Andrea Grillo, “A proposito del motu proprio Summorum Pontificum” in Il Regno documenti 15/2007, n. 1017; Pierre de Charentenay, “Au dela du motu proprio” in Etudes septembre 2007, n. 3; Cormac card. Murphy-O’Connor, “Tenere insieme la chiesa” in Il Regno 15 luglio 2007, n. 1017; Valerio Ferrua o.p., “La messa in latino. Parliamone seriamente” in Il nostro tempo, 8 luglio 2007 e 15 luglio 2007; Rinaldo Fabris, “Il messale di Pio V”, in Vita pastorale 2/2007; Vittorio Croce, “C’è il rischio dello scollamento” in Settimana, 16 settembre 2007, n. 33; La messe en question – Actes du V Congrès théologique de Sì sì no no, Paris avril 2002, Publications du Courrier de Rome; Fideliter nn. 177 (mai-juin 2007), 178 (juillet-août 2007) e 179 (septembre-octobre 2007); La Tradizione cattolica nn. 1 e 2, 2007; Fraternità sacerdotale San Pio X, Il problema della riforma liturgica, Albano Laziale 2001; Guillaume Tabard, Latin or not Latin, Paris 2007; Mons. Sebastiano Dho, “Il messale di Paolo VI è e resta la forma ordinaria” in Vita pastorale n. 8-9/2007.
(4) I dati non sono certissimi, ma sono forniti dagli stessi ambienti tradizionalisti. La Fraternità sacerdotale San Pio X, scomunicata nel 1988, rivendica 450 presbiteri, 6 seminari, 200 seminaristi e circa 150.000 fedeli. I tradizionalisti in comunione con Roma rivendicano 150 presbiteri, 107 seminaristi e in Francia contano 45.000 fedeli. La liturgia tridentina è celebrata in Francia in 124 luoghi ed è stata richiesta dopo il motu proprio in altri 11 luoghi. Cf. C. Barthe,Propositions pour une “paix” de l’Église, Hora decima, Paris 2006; La Croix, vendredi 14 septembre 2007, p. 2; La Vie, n° 3185, p. 65.
(5) Cf. mons. C. Dagens, vescovo di Angoulême (Francia), in Il Regno documenti 15/2007, p. 460.
(6) J. Ratzinger, “Bilan et perspectives”, in Autour de la question liturgique. Avec le card. Ratzinger, Actes des Journées liturgiques de Fontgombault, Abbaye Notre-Dame, Fontgombault 2001, pp. 177-179.
(7) Nel senso dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita, pensatore neoplatonico cristiano del IV sec. d.C., che tanto ha ispirato la riflessione teologica cristiana.
(8) Ratzinger, “Bilan et perspectives”, p. 175.
(9) J. Ratzinger, Discorso del 24 ottobre 1998 alla Fraternità sacerdotale di S. Pietro. Diceva ancora in quell’occasione: “Ho un grande rispetto per i nostri antenati che dicevano durante la messa bassa le preghiere che il loro libro di devozioni proponeva, ma certamente non si può considerare questo come ideale della celebrazione liturgica”.
(10) Concilio di Trento, Sessione XXII [1562], cap. 8.
(11) “Les dangers qui menacent la liturgie aujourd’hui” in La Croix 28 décembre 2001.
(12) Sacramentum caritatis 39.
(13) Nella lettera che accompagna il motu proprio sta scritto: “Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi”. Ma qui si pone la domanda: che cosa vuol dire “in linea di principio”? Che “di fatto” la non accettazione della riforma liturgica di Paolo VI va tollerata? E se si dice che il rifiuto non può essere totale, è lecito dunque un rifiuto parziale? La communicatio in sacris con i vescovi e i presbiteri che praticano la riforma liturgica, ad esempio nella messa crismale del giovedì santo, epifania dell’unità del presbiterio attorno al vescovo, può essere rifiutata? Si veda a questo proposito B. Sesboüé, “L’Institut du Bon Pasteur, espoir ou équivoque?”, in Études 4066, juin 2007, pp. 779-792.
(14) Mons. A. Bagnasco, Prolusione al Consiglio Permanente della CEI, 17 settembre 2007.
(15) Mons. B. Fellay, “Lettera ai fedeli” (Menzingen, 7 luglio 2007), in La Tradizione cattolica 18/2 (2007), pp. 5-6.
(16) Cf. La Tradizione cattolica 18/2 (2007), Editoriale, p. 4: “Come sarebbe possibile gioire del fatto che la messa di sempre sia liberalizzata, allorché essa è autorizzata come forma straordinaria accanto al rito ordinario di Paolo VI? Come sarebbe possibile rallegrarsi del fatto che l’autentica espressione liturgica della fede cattolica sia consentita, allorché sui problemi dottrinali posti dal concilio non si ha un sostanziale cambiamento di indirizzo?”.
(17) “Les dangers qui menacent la liturgie aujourd’hui”.