4 novembre 2007
di Enzo Bianchi
Se è vero che il cristianesimo non è religione del libro, è altrettanto vero che solo il vangelo consente la conoscenza di Cristo
Per una lettura del cristianesimo in Italia
La Stampa, 4 novembre 2007
Inchieste e sondaggi richiamano periodicamente l’attenzione su vari aspetti del fenomeno religioso in Italia, offrendo preziosi spunti di riflessione, ma nel leggerne i risultati bisognerebbe sempre tener conto di alcune avvertenze. Innanzitutto, nessuna indagine “religiosa”, per quanto scientificamente condotta, così come nessuna intuizione o esperienza personale può pervenire a misurare la “fede” di una persona o di una collettività: si possono cogliere solo alcuni elementi esterni, quelli quantitativamente misurabili, e fotografie parziali di vissuti che restano comunque insondabili nella loro pienezza e profondità. Inoltre lo sguardo dei sociologi, sempre più acuto e importante, non pretende mai di essere esaustivo e sovente si rivela limitato perché troppo legato al presente, privo di “memoria” e di capacità di lettura delle dinamiche. Anche quando si raffrontassero sondaggi analoghi effettuati a distanza di anni o anche solo di mesi, si avrebbero paragoni tra due “fotografie” puntuali e non una visione panoramica e dinamica dell’evolversi di una situazione o di un costume. Accanto alla sociologia, poi, resta fondamentale nel leggere situazioni segnate dal “religioso” il contributo degli antropologi, così come l’apporto di persone immerse nelle realtà religiose e capaci di ascoltare con prossimità i movimenti, le oscillazioni e le contraddizioni che contraddistinguono l’ambito particolare del rapporto tra l’essere umano e le realtà “altre”.
Quando si applicano questi tentativi di lettura alla situazione italiana, l’impresa si complica ulteriormente perché il cattolicesimo nel nostro paese ha una specificità a volte enigmatica nelle sue patologie come nelle sue positività. Chi, come me, conosce bene la situazione della chiesa cattolica in Europa occidentale grazie alle frequenti occasioni di confronto in diversi paesi, non può non rilevare alcune particolarità. Innanzitutto Il cattolicesimo italiano è un fatto ancora visibile, che si impone a sa essere eloquente anche a livello pubblico. Se gli ultimi quarant’anni hanno visto un sensibile calo della pratica religiosa domenicale – attualmente attestata tra il 17% e il 20% della popolazione – questo non significa una scomparsa delle convinzioni cristiane nella vita degli italiani: non a caso, se interrogati, gli italiani si dichiarano per il 70% cattolici (un dato non lontano dal numero dei battezzati) e una percentuale ancor più elevata di genitori desidera per i propri figli l’insegnamento della religione cattolica nella scuola. Qui sorge un primo enigma: come mai solo un quinto di quanti si dichiarano cattolici ha un legame reale e non sporadico con la comunità cristiana e la sua vita liturgica?
Da alcuni anni molti sono portati a leggere questa specificità del cattolicesimo italiano con la categoria della “popolarità”. Sovente si attesta l’esistenza di “un volto popolare del cattolicesimo italiano”, “un radicamento della fede nella società”, “una presenza capillare del cattolicesimo nella vita quotidiana”... Sono espressioni che contengono elementi di verità ma che richiederebbero un discernimento ulteriore e più profondo, soprattutto non ci si dovrebbe accontentare di un cristianesimo “minimo” ma, prima che sia troppo tardi, richiedere e favorire scelte coerenti con una misura “alta” della vita cristiana ordinaria. Altrimenti il rischio è quello di un cattolicesimo popolare, sì ma svuotato di una rilevanza del primato della fede cristiana: già oggi come possiamo interpretare il dato che, se interrogati, più di metà di quanti si dichiarano cattolici affermano di non credere nell’al di là, nella vita eterna, nella risurrezione di Cristo e della carne? E cosa indica il fatto che non si provi contraddizione né consapevolezza di peccato nel proclamarsi cattolici e nel disattendere in modo sistematico le esigenze morali del vangelo e nell’assumere comportamenti etici che – nell’ambito dell’uso dei beni o dell’esercizio della sessualità, per esempio – disattendono il messaggio di Gesù di Nazaret?
In questa situazione molti finiscono per auspicare un cristianesimo vissuto secondo il paradigma della religione forte e incarnato in minoranze attive ed efficaci, capaci di assicurare identità e visibilità che si impongono perché pensate in una strategia difensiva e di concorrenza. Da parte mia ritengo invece che, pur mantenendo una dimensione “popolare”, solo vivendo la differenza cristiana nella compagnia degli uomini si innesta una dinamica che scuote l’indifferenza alla fede cristiana e alle sue esigenze propria anche a molti sedicenti cattolici. Se invece ci si accontenta di questa “popolarità” e la si cavalca a scapito della qualità cristiana della vita e, di conseguenza, della testimonianza, si corre il rischio di divenire sale che perde il suo sapore, di veder svanire la forza del regno che come lievito fa fermentare tutta la pasta, di essere magari città posta sul monte ma priva di splendore che attira lo sguardo, di scoprirsi lampada posta sul candelabro ma incapace di illuminare alcunché.
Per questo rimane indispensabile la lettura e la conoscenza del vangelo tra quanti compongono la comunità cristiana. Infatti, se è vero che il cristianesimo non è religione del libro, è altrettanto vero che solo il vangelo consente la conoscenza di Gesù Cristo, centro e cuore del cristianesimo. “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”, affermava san Girolamo, ripreso non a caso dal Vaticano II. Quale figura di cristiano può mai emergere senza una conoscenza diretta di Gesù Cristo e della sua umanità esemplare come quella che può venire dalla lettura e dalla familiarità con i vangeli? Un cristianesimo in cui il vangelo non ispira la vita e il vissuto dei credenti come riuscirà a non divenire rituale, devozionale, a non ridursi a fatto culturale o sociale, se non addirittura a fenomeno folcloristico o superstizioso? Solo con la lettura personale e diretta della Bibbia – e, in primo luogo, dei vangeli – il cristiano può nutrire la sua fede e irrobustire la sua capacità di testimoniarla.
In questo senso sarebbe auspicabile un percorso di serio approfondimento nella comunità cristiana che tenga conto di due esigenze. La prima è quella di porre l’accento sul vangelo, su quel testo che il concilio ha voluto e saputo ridare in mano ai cattolici nella sua interezza e ricchezza dopo secoli di esilio della Scrittura dalla catechesi e dalla predicazione: alcuni si stupiscono, altri si rammaricano di fronte al dato che neppure un quinto degli italiani afferma di aver letto i quattro vangeli. Senza conoscere il vangelo com’è possibile conoscere Gesù Cristo e sentirlo quale Signore? Come si può cogliere la sua umanità esemplare per noi uomini, l’essersi fatto uomo di Dio “per insegnarci a vivere da uomini in questo mondo”, secondo l’espressione di san Paolo? Come percepire che scopo dell’umanizzazione di Dio è l’autentica umanizzazione dell’uomo?
La seconda esigenza è l’ascolto dell’umanità di oggi, uomini e donne: un ascolto che deve avvenire attraverso l’emergenza della dimensione antropologica. Sì, sul tenere insieme il vangelo e l’uomo, la fede e la dimensione antropologica si gioca il futuro della fede cristiana in Italia. Se c’è stato e c’è un fallimento, è quello della trasmissione, della “tradizione” della fede, ma l’antidoto consiste ormai solo nel ristabilire il primato del vangelo e l’ascolto dell’umano. In una stagione in cui tutto è rimesso in discussione – la concezione del rapporto con il proprio corpo, con l’altro sesso, con la sofferenza, con il tempo, con la natura... – occorre elaborare risposte di sapienza che dicano chi è l’essere umano e come possa umanizzarsi attraverso una qualità di vita personale e di convivenza.
La religione ha bisogno dell’esercizio della ragione per non cadere in forme paganeggianti, magiche o superstiziose, ma ha anche bisogno che questo esercizio razionale avvenga non senza gli altri ma con gli altri, tutti abitanti della stessa polis. Insieme, cristiani e non cristiani, dobbiamo porci la questione antropologica: chi è l’uomo? Dove va? Come può vivere in una società che lotta contro la barbarie e a favore dell’umanizzazione? Dalle risposte che ciascuno saprà dare attingendole dal proprio patrimonio spirituale dipende certamente il nostro futuro, ma anche, già da oggi, la qualità della nostra vita personale e della convivenza civile.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Stampa