28 settembre 2007
Articolo di ENZO BIANCHI
Non chiediamoci per chi e perché manifestano i monaci birmani: essi manifestano anche per noi, avvolti nella miope opulenza del nostro occidente malato
La Stampa, 28 settembre 2007
File interminabili di monaci che camminano silenziosi e risoluti in mezzo a due ali di folla con le loro teste rasate e gli abiti cremisi e arancioni; monaci accovacciati inermi di fronte a militari in assetto antisommossa; bocche abituate al silenzio coperte da mascherine antilacrimogeni; monaci anziani e giovani feriti, uccisi, imprigionati, bastonati... Il mondo sembra scoprire tragicamente solo in queste ore un intero paese e, al cuore di esso, i suoi monaci. E, stupito, si chiede quale forza interiore li muova e faccia di loro una leva cui si affida per il proprio riscatto un popolo vessato da un regime dittatoriale. Persone che noi frettolosamente giudichiamo “fuori dal mondo”, distaccate dalle ambizioni e dalle preoccupazioni che abitano i loro contemporanei, si rivelano le più capaci di cogliere le radici di un disagio e di una insostenibilità della vita, quelle maggiormente in grado di dare voce – paradossalmente attraverso il silenzio – al grido soffocato dell’oppresso, di farsi carico della sofferenza e della dignità di un’intera nazione. Di loro ci accorgiamo solo in situazioni estreme, come ai tempi dei bonzi che si davano fuoco in Vietnam, della precedente rivolta in Birmania o della resistenza e dell’esilio dei lama tibetani, icona di un popolo martoriato; oppure li confiniamo in un fascinoso mondo poetico, come i protagonisti de l’Arpa birmana o del più recente Primavera, estate, autunno, inverno ... e ancora primavera. Eppure essi sanno cogliere con estrema concretezza ciò che ai più sfugge: la radice ultima delle cose.
Questo dipende indubbiamente da alcune caratteristiche proprie del buddhismo e dei suoi monaci: una via “monastica” nella sua essenza e struttura, al cui interno ogni giovane è invitato a trascorrere un tempo come monaco nel proprio percorso di formazione umana; una società dove la gente normale incontra ogni giorno sul proprio cammino i monaci che, in silenzio, nella fiducia e nell’abbandono alla generosità dell’altro, chiedono per strada una ciotola di riso, nutrimento per loro sì, ma soprattutto occasione per il donatore di perseguire la rettitudine della propria vita. Non a caso abbiamo visto in questi giorni immagini di monaci che tenevano ostentatamente rovesciata la propria ciotola, in segno di estrema protesta, come a dire: noi siamo disposti a privarci del cibo, ma priviamo nel contempo questa società ingiusta della via maestra per compiere un’azione meritoria.
Ma in questa epifania della capacità dei monaci birmani di catalizzare il sentire della gente comune ritroviamo soprattutto alcuni tratti comuni al monachesimo come fenomeno antropologico, prima ancora che come elemento interno a una determinata via religiosa. La vita monastica, infatti, è un fenomeno umano, quindi universale, che presenta gli stessi caratteri a tutte le latitudini, presente nella storia non solo delle varie religioni, ma anche di alcune correnti e scuole filosofiche. E’ una forma di vita che da sempre riguarda sia uomini che donne e che si caratterizza per il celibato e per una certa separazione dall’ambiente sociale e sovente anche religioso di appartenenza: elementi che da soli ne spiegano la natura di presenza sempre minoritaria. Quale elemento marginale, il monaco emerge da un’area esogena ma, facendo parte del sistema endogeno della religione e della società, rappresenta un agente esterno che lavora ed è efficace all’interno.
Il monachesimo non resta mai completamente esogeno, “altro” – pena il divenire settario ed ereticale – ma non è neanche mai interamente endogeno, come se fosse una forza che nasce e si sviluppa all’interno del sistema istituzionale. Questa duplice appartenenza del monaco fa sì che, come minoranza efficace, inoculi all’interno del sistema religioso e sociale una diastasi che è sempre e congiuntamente di edificazione e di contestazione. In qualche misura il monaco mantiene il contatto con la cultura dominante, ma esprime anche una protesta, e ricerca un urto con questa, ponendosi in contrasto con la “via media”.
“Compito peculiare del monaco – scriveva Merton, un monaco d’occidente così familiare al monachesimo buddhista – è tener viva nel mondo moderno l’esperienza contemplativa e mantenere aperta per l’uomo tecnologico dei nostri giorni la possibilità di recuperare l’integrità della sua interiorità più profonda”. Sì, il monachesimo è controcultura, cioè cultura altra, minoritaria ma, proprio per questo, capace di svolgere un ruolo determinante ed efficace nel lungo termine. Allora, non chiediamoci per chi e perché manifestano i monaci birmani: essi manifestano anche per noi, avvolti nella miope opulenza del nostro occidente malato di mancanza di senso.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Stampa