Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Nelle vigne l'amore per la vita

26/08/2007 00:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2007,

Nelle vigne l'amore per la vita

La Stampa

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26 agosto 2007

di Enzo Bianchi

Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza

 

La Stampa, 26 agosto 2007

 

Agosto non è ancora finito e quest’anno la vendemmia è già iniziata, con un mese d’anticipo a causa del caldo precoce di giugno, un caldo che tuttavia nell’ultimo mese ha lasciato a desiderare. E’ il momento allora di parlare di vigne, di vite, di vendemmia e di vino. Ne parlo perché è lì, tra le vigne, che sono nato e cresciuto, tra filari che coprivano e coprono ancora le colline del Monferrato: “e vigne, e vigne, e vigne senza fine”.

Da ragazzo, all’età delle medie e delle superiori, ogni giorno per andare a scuola, all’andata come al ritorno, dovevo camminare mezzora tra le vigne, unica visione per i miei occhi sotto il cielo, unico scenario per i miei pensieri e le mie apprensioni scolastiche. Così ho imparato a conoscerle, a osservare i loro cambiamenti, ad amarle. La mia terra è tutta vigne, solo qua e là, ai bordi delle strade, un canneto che forniva i sostegni per le viti in quegli ordinati filari che segnavano i diversi anfiteatri collinari e sembravano sfidare la pendenza dei bricchi: filari disposti come oggetti preziosi in un’esposizione, ciascuno scostato dall’altro quel tanto necessario per essere visto e baciato dal sole.

 

D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni paiono ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino. Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento. Si tratta, infatti, di mondare la vigna, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile. Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che trancia il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo. E lì, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio lì, ai primi tepori, la vite “piange”, versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande. Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può.

 

Ma poi ecco la bella stagione, un’esplosione di vegetazione che muta il colore alle colline: i grigi e gli ocra delle terre si ammantano di verdi e verso sera, sotto lo sguardo amico della luna, si accendono i falò ai bordi delle vigne e si bruciano i tralci potati e seccati. Con la fioritura sboccia anche un nuovo ritmo, la pulsione della vita accelera, la terra cotta dal sole pompa linfa in ogni tralcio, gli acini si gonfiano e anche il vignaiolo fa la sua parte: passa tra i filari, constata i risultati effettivi della potatura, come se leggesse le istruzioni per il prossimo anno, e ancora una volta contiene, limita, “abbassa” le viti per permettere al sole di colpire al meglio i grappoli. Così, agli inizi di agosto, attorno a San Lorenzo, gli acini si tingono di un nero ingioiellato di riflessi bluastri.

 

L’estate scorre veloce e quando le giornate iniziano a rimpicciolirsi e le frescure serali a farsi sentire, ecco il tempo della vendemmia, della raccolta del frutto di tanto lavoro e soprattutto di tanta attesa, ecco il tempo di “fare il vino”.. Sì, con la vendemmia finisce veramente l’anno per i contadini, perché tutto nel ciclo dei viticoltori tende verso questa “ora”, l’ora per eccellenza in cui valutare se l’annata è andata bene o male, se essere contenti o frustrati del proprio mestiere. Anche per questo è sempre difficile decidere quando scocca esattamente quest’ora, quando mettere mano alla vendemmia e da quali vigne iniziare. Normalmente si parte dalle vigne di uva bianca, le più assolate, ma nulla è scontato e sembra che il contadino debba ogni anno decidere tutto come fosse la prima volta. Perciò si aggira tra i filari anche più volte al giorno, osserva i grappoli, li alza delicatamente con la mano, li palpa, ne assaggia qualche acino; poi scruta il cielo, valuta il tempo, perché la pioggia con la vendemmia in corso è sempre una minaccia che può trasformarsi in autentica disgrazia per la qualità del raccolto e l’esito finale di tanta fatica...

 

Ma quando, dopo aver tutto soppesato, il tempo è compiuto e la decisione è presa, ecco che tutta la famiglia, i parenti, a volte anche gli amici che non possiedono vigne loro, sono convocati per vivere la vendemmia, che è rito prima ancora che lavoro: vera celebrazione sui pendii delle colline, celebrazione alimentata da canti che coprono il suono ossessivo della pinza che con maestria taglia i grappoli. Sì, un tempo si era davvero tutti nelle vigne, e anche i bambini facevano la loro parte con estrema naturalezza, imparando come per gioco quello che sarebbe diventato un mestiere per la vita. E carri trainati dai buoi, con le bigonce cariche di uva si incrociavano per le strade che conducevano alle varie cascine o verso la cantina sociale.

 

A volte scarsa, a volte abbondante, raccolta con il nuvolo oppure assolata, la vendemmia poneva fine alle attese, alle ansie, ai timori. Il silenzio della “brutta stagione” che fa stare in casa invadeva il giorno e sembrava vincerlo, un silenzio abitato non da parole, ma da un odore intenso, quello del mosto e delle vinacce che saliva dalle cantine e si diffondeva per tutta la valle, inondandola di profumo: era il profumo del vino in gestazione che cantava nel silenzio.

 

Le vigne, dal canto loro, spogliate dei grappoli maturi, non rinunciavano per questo a narrare il loro amore per la terra e per l’uomo che le aveva sapientemente accudite; così si vestivano a festa, riprendendosi i colori che la tavolozza di un pittore impressionista aveva preso a prestito da loro: le foglie giallo paglierino del moscato, quelle rosso paonazzo del brachetto, le viola del dolcetto, quelle verde antico del barbera... Inutile cercare di descrivere una vigna a fine ottobre, così cangiante al sole o all’ombra, mutevole tra le nebbioline autunnali e le nubi incombenti: certo, in autunno le foglie sono più belle dei fiori.

 

Guardare le vigne significa provare gioia e malinconia insieme, una malinconia che un tempo era accresciuta perché quelli erano anche i giorni delle migrazioni, dei mezzadri che lasciavano la cascina e la vigna lavorata in affitto per altre terre e altre viti. “Fanno San Martino”, ci dicevano, e noi bambini salutavamo commossi i nostri compagni di scuola, senza capire perché mai quel santo chiedesse agli uni di partire e agli altri di restare. Erano quelli, e lo sono ancora, i giorni in cui il cielo si spoglia delle ali di tanti uccelli che avevano rallegrato l’estate: anche tra loro, alcuni partono e altri restano, ciascuno alla ricerca di una vita possibile per sé e per i propri piccoli. Giorni di malinconia, attenuati da qualche ora di tiepido sole prima di giungere alle soglie dell’inverno: non a caso la si chiamava la “stagione dei morti”.

 

Intanto però il vino è fatto e se ne sta quieto nelle botti, avendo calmato i suoi bollori. Finito il tempo del lavoro nella vigna, è il vino ora a lavorare silenzioso in cantina: si affina in modo misterioso, costruisce il suo carattere e, come la vigna da cui proviene, chiede a sua volta attesa, pazienza a chi lo ha fatto e curato...

 

Nel grande codice della nostra cultura, la bibbia, si narra il mito di Noè che per primo piantò e coltivò una vigna: sopravvissuto al diluvio universale che aveva accomunato umanità e natura nella devastazione, Noè per prima cosa pone un gesto di grande speranza, contrae un matrimonio con la terra: già il piantare un albero, infatti, è compiere un gesto di grande speranza, ma piantare una vigna lo è ancor di più perché occorrono anni e anni per goderne il frutto, occorre decidere di fare alleanza con quella terra, di fermarsi là, di lavorarla a lungo in pura perdita. Possiamo immaginarci lo stupore di Noè quando ha finalmente tra le mani quei grappoli a lungo attesi, lo possiamo quasi vedere affascinato e sedotto da un fatto misterioso: avendo spremuto quei grappoli vendemmiati per berne il succo, si accorge che questo fermenta, diventa mosto, ribolle, si solleva, come il ventre di una donna incinta, come l’impasto di acqua e farina di cereali... Noè beve quel succo in cui scorge una vitalità inattesa, ne prova allegria, si sente consolato per tutta la tristezza provata durante il diluvio: ne aveva viste tante e troppe. Possiamo forse accusarlo per aver bevuto ancora, per aver cercato oblio e consolazione nel frutto del lavoro delle proprie mani? Possiamo rimproverarlo per l’ebbrezza di chi non conosceva la misura? Ma senza misura erano state le disgrazie attraversate, senza misura l’ansia per un futuro senza vita...

 

Enzo Bianchi

 

Pubblicato su: La Stampa