19 agosto 2007
di Enzo Bianchi
Davvero la santità del martirio è un dono di Dio capace anche di trascendere i limiti e le ambiguità di un’esistenza umana
Avvenire, 19 agosto 2007
Enrico II Plantageneto incede solenne nella navata della cattedrale di Canterbury, si inginocchia sulla tomba di Thomas Becket e si fa fustigare in segno di pentimento per non aver impedito pochi anni prima l’assassinio del suo amico e cancelliere che lui stesso aveva voluto come arcivescovo di Canterbury. Con questa scena si apre Becket e il suo re, pellicola realizzata da Peter Glenville nel 1964, e interpretata da Richard Burton e Peter O’Toole: un’opera che più volte ho invano cercato di avere videocassetta o in dvd, ma che purtroppo pare non sia possibile recuperare: evidentemente noi suoi estimatori non siamo sufficientemente numerosi.
Eppure la riduzione cinematografica della pièce teatrale di Jean Anouhil Becket o l’onore di Dio ottene a suo tempo sette candidature all’Oscar e l’ambita statuetta per la miglior scenografia non originale. La vicenda cui si ispira mi accompagna fin dalla mia adolescenza, soprattutto attraverso un’altra, celeberrima opera teatrale, Assassinio nella cattedrale di Thomas S. Eliot. Averla vista rappresentata alcune volte alla Pro Civitate Christiana ad Assisi mi aveva spinto a interessarmi al vescovo martire che per noi cattolici in quella stagione ecclesiale era un modello della lotta della chiesa cattolica contro le pretese del potere politico.
Pochi oggi lo vogliono ricordare, ma noi ragazzi e giovani cattolici, crescevamo con il desiderio del martirio anzi, come ci veniva insegnato, pregavamo perché il Signore ci facesse il dono di manifestare la nostra fede in lui anche attraverso la testimonianza di una morte inflitta a motivo di Cristo. Sì, erano altri tempi, con un’altra chiesa e un’altra modalità di stare nel mondo da parte dei cristiani: prevaleva un atteggiamento difensivo di fronte ai nemici della fede e intransigente in nome dell’identità cattolica. Così era interpretata e vissuta in quegli anni l’irriducibile “differenza” cristiana, l’essere “nel mondo ma non del mondo”, il paradosso di una scelta radicale che comportava anche il “perdere la vita” per ritrovarla in pienezza.
La festa liturgica di Thomas Becket cadeva anche allora il 29 dicembre, nei giorni delle vacanze natalizie, in cui i parroci non perdevano occasione per “istruire” i ragazzi e fornire loro esempi di testimoni della fede. Chi della mia generazione non ha letto l’omelia dei vespri di natale che Eliot mette sulle labbra di Becket, con la sua riflessione sulla morte che è nascita e sulla nascita vera che è morte? Chi non ricorda le parole del vescovo Thomas sul martirio che non può essere un progetto individuale da ricercare ma che, se ci viene incontro, va assolutamente accolto perché occorre sempre fare bene ciò che si deve fare e riceverà il premio solo chi ha combattuto secondo le regole?
E’ nutrito di questi sentimenti che nell’estate del 1962 volli recarmi in pellegrinaggio sui luoghi segnati dalla vicenda di Thomas Becket: Fleury-sur-Loire, Sens, Saint Omer, Pontigny... Ma la meta del viaggio, la cattedrale di Canterbury, mi riservò una delusione e mi obbligò a una profonda riflessione: lì, infatti, più nessuna traccia della tomba dell’arcivescovo, ma solo una lapide accanto a una cappella laterale. Era stato davvero quello l’inizio di un conflitto tra re e chiesa che avrebbe caratterizzato per secoli la storia e la fede delle isole britanniche, fino al tragico scontro tra un altro re Enrico e un altro fidato cancelliere Tommaso: quasi quattrocento anni dopo, Enrico VIII e Tommaso Moro conosceranno una vicenda per molti versi analoga a quella dei loro omonimi, che si chiuderà anch’essa con il martirio di Tommaso e, significativamente, con la conseguente distruzione della tomba di Becket nella maestosa cattedrale di Canterbury, avvenuta nel 1538.
Così, quando giunse nelle sale il film di cui avevo letto l’opera teatrale sottostante io, ormai ventunenne, corsi a vederlo con un ritrovato entusiasmo di fiero militante cattolico. La pellicola era anche divertente e avvincente, una sorta di commedia rosa e nera, con Peter O’Toole che interpretava magnificamente un istrionico Enrico II, sedotto dal fascino e dall’intelligenza di Thomas Becket – impersonato da un altrettanto grandioso Richard Burton. Il sentimento di amore-odio che Enrico II nutriva per l’amico Thomas si manifestava con una copiosa espressività: rabbia, risa, urla,scherzi, minacce, lusinghe...
La resa cinematografica accentua efficacemente alcuni elementi di una vicenda storica ben nota: siamo nell’Inghilterra del XII secolo, dove il re Enrico II nel 1155 nomina cancelliere del regno Thomas Becket, rampollo di un’agiata famiglia di mercanti, amico di gioventù del re, con il quale ha condiviso battute di caccia, avventure amorose e ogni sorta di divertimenti. L’intesa è profonda, i caratteri e le qualità umane e di governo complementari. Thomas assume come suo impegno prioritario “l’onore del re”, fino a sostenerlo con forza e abilità nella lotta contro i vescovi e il clero che volevano difendere e incrementare i privilegi acquisiti. Enrico II pensa allora di forzare la situazione a suo favore nominando arcivescovo di Canterbury e primate della chiesa d’Inghilterra il fidato cancelliere, certo di riuscire così a sottomettere il potere della chiesa al proprio volere. L’amicizia e l’insistenza del re vincono la ritrosia di Becket: la nomina avviene nel 1162, e il 3 giugno di quell’anno Tommaso è consacrato vescovo. Ma subito Becket si fa carico delle nuove responsabilità con la stessa ferma determinazione con cui aveva accettato l’incarico di cancelliere: ormai sarà “l’onore di Dio” a guidare il suo comportamento e le sue decisioni. Così inizia a difendere strenuamente la chiesa contro le pretese della corona, fissando paletti ben precisi alla prepotenza regale fino a rifiutarsi di sottoscrivere le vessatorie Costituzioni di Clarendon.
E’ la guerra! Il re, furibondo perché proprio colui che avrebbe dovuto spianargli la strada gli si erge ora davanti come baluardo insormontabile, trama con alcuni vescovi, in particolare Gilbert Foliot, titolare della sede di Londra, e accusa Becket di tradimento. L’arcivescovo è privato dei suoi beni e costretto a mettersi in salvo in Francia, dove trova rifugio nelle abazie di Saint Omer prima e poi di Pontigny: il giovane dalla bella vita, il cancelliere onnipotente conosce ora la dura ascesi della vita monastica riformata da Bernardo. Lo stesso papa Alessandro III, cui l’arcivescovo di Canterbury si era rivolto, esita a prenderne risolutamente le difese e finisce per abbandonarlo al suo destino. Tommaso dapprima scomunica vescovi, chierici e baroni schieratisi con la corona, poi tenta una riconciliazione e dopo una tregua precaria concordata a Fréteval – stupenda la resa cinematografica dell’incontro tra i due a cavallo sulla spiaggia – decide di tornare in Inghilterra confidando forse che l’antica amicizia con il re gli potesse garantire qualche margine di manovra. Ma, come afferma Enrico II, “L’amicizia è una bestia familiare, tenera e viva. Sembra avere solo due occhi sempre posati su di voi e capaci di riscaldare il cuore. Non le si vedono i denti, ma è una bestia che ha una strana particolarità: morde quando è morta!”.
E l’amicizia tra il re e il suo cancelliere è morta quando questi ha accettato di servire un altro Re e di anteporre l’onore di Dio a quello del re. Così il rientro trionfale di Becket, acclamato dalla folla che vede in lui il difensore dei poveri contro lo strapotere reale, diviene una parabola dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme: il corteo festoso che il 1 dicembre 1170 lo accompagna dalle bianche scogliere di Dover a Canterbury svanirà nella penombra della cattedrale dove il 29 di quello stesso mese, alcuni cavalieri del re lo assassinano accanto all’altare.
E’ il martirio non cercato ma accolto in piena consapevolezza, è il sangue versato che riscatta anche ogni possibile ambiguità e che susciterà un moto di venerazione e di entusiasmo in tutta la cristianità dell’epoca. Ben presto frotte di pellegrini faranno di Canterbury la meta del loro cammino di conversione e decine di opere d’arte di ogni tipo – dagli altari e le vetrate delle chiese di tutto il continente ai racconti di Chaucer – renderà omaggio a quell’uomo di mondo, quell’abile politico che, indossati non solo i panni ma l’anima del vescovo seppe spendere tutte le proprie forze a difesa del gregge.
Confesso che da quegli anni, in cui ero impegnato nella politica, ho sempre prestato attenzione ai rapporti tra stato, chiesa, politica e cristiani, avendo capito la dimensione “eversiva”, “anormale” della gestione della polis da parte dei cristiani: nella storia, religione e politica non vanno di pari passo perché il vangelo, che chiede di “dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”, chiede anche di “obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”, sicché a volte può anche accendersi il conflitto quando Cesare esige più di quanto gli spetti. Per questo Thomas Becket è memoria viva ancora oggi della “anormalità” del messaggio cristiano, dell’irriducibilità del vangelo alla mentalità mondana, come significativamente testimonia l’abside principale della cattedrale di Canterbury: lì, in quello spazio che rappresentava simbolicamente il cranio di Becket spaccato dalla spada assassina, vi è oggi una cappella dedicata ai martiri del XX secolo appartenenti a tutte le confessioni cristiane. Davvero la santità del martirio è un dono di Dio capace anche di trascendere i limiti e le ambiguità di un’esistenza umana, di fecondare la comunità ecclesiale e di destare interrogativi profondi in chi non condivide la fede in Gesù di Nazaret. Davvero il sangue dei martiri è seme dei cristiani.
Enzo Bianchi
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