Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Alla voce indegnità

27/05/2007 01:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2007,

Alla voce indegnità

La Stampa

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27 maggio 2007

Articolo di ENZO BIANCHI

Il rispetto della dignità umana è fondato sulla nostra comune indegnità: l’uomo afferma la dignità propria e dell’intero genere umano quando

 

La Stampa, 27 maggio 2007

 

Esistono vicende dolorose e tragiche, a livello personale o collettivo, che ci interpellano sulla dignità umana e ci spingono a chiederci, con Primo Levi e tanti che come lui hanno attraversato l’abisso del male nei campi di sterminio, “se questo è un uomo”. Non è certo un caso se la lenta e progressiva elaborazione di un orizzonte etico universalmente condiviso abbia conosciuto un’accelerazione risolutiva nella stagione immediatamente successiva al secondo conflitto mondiale, tale da condurre alla stesura e all’accettazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Nel preambolo al testo proclamato dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 leggiamo: “Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali e inalienabili costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. E l’articolo 1 afferma che “tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti”.

 

Non possiamo dare per tranquillamente acquisiti questi principi fondamentali: troppe sono le circostanze storiche, i regimi politici, le aree geografiche che ancora oggi contraddicono apertamente questi assunti. Anzi, la maggiore circolazione di notizie e di immagini su scala planetaria ci portano ad assistere quasi in diretta all’epifania di orribili violazioni della dignità umana. Basterebbe ricordare le immagini delle torture nel carcere di Abu Ghraib in Iraq per capire che quando si ignora la qualità umana di chi ci sta di fronte, il peggio diventa non solo possibile ma addirittura naturale, ovvio, banale. Hannah Arendt non ha forse potuto parlare a ragione di “banalità del male”? E quello che è successo ad Auschwitz o nei gulag delle isole Solovki non ha preservato la famiglia umana dai massacri di Srebrenica o della regione dei Grandi Laghi, né ha svuotato campi di aberrazione come Guantanamo.

 

Ma credo ci sia un elemento relativo al rispetto dei diritti umani che sovente è ignorato o rimosso, nonostante appartenga a tutte le grandi tradizioni etiche e sapienziali: la persona umana è rispettabile non per le sue qualità eminenti o per i suoi tratti nobili ed elevati, ma proprio quando è priva di questa “dignità”, quando ha smarrito la forma umana ed è interamente affidata alla cura dei suoi fratelli e delle sue sorelle in umanità. È quanto afferma già Sofocle nell’Edipo a Colono quando mette in bocca al protagonista questa frase terribile e vera: “Proprio quando io non sono niente, allora divento veramente un uomo!”. Edipo, colui che ha ucciso il padre e ha vissuto l’incesto con la madre, l’uomo che ha trasgredito gli interdetti fondamentali che l’umanità ha posto come frontiera invalicabile, accanto al suo affermare di non essere più nulla rivendica la pretesa di un’umanità autentica, il rispetto della propria dignità umana.

 

Sì, anche l’uomo che ha perso la forma, i “connotati” propri, la persona che ha assunto l’indegnità, richiede di essere rispetto, richiede che si riconosca in lui la dignità umana. Potremmo accostare a Edipo anche la figura biblica di Giobbe, sfigurato dalla disgrazia e dalla sofferenza, o intere categorie di “senza dignità” che già l’Antico Testamento chiedeva di riconoscere e difendere proprio per la loro condizione inerme: lo schiavo, lo straniero, l’orfano, la vedova, l’oppresso... Accanto a loro, anzi quasi come loro emblema appare il “senza dignità” per eccellenza, quel “servo di IHWH” cantato dal profeta Isaia, uomo senza forma, aprosopon “senza volto”, disprezzato, deriso, reietto, “tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo”: ebbene, anche o forse soprattutto un “uomo senza qualità” come questo conserva una dignità che chiede di essere rispettata. Anzi, potremmo dire che fonda la ragione stessa del rispetto della dignità umana. Ogni persona ha infatti diritto al rispetto della propria dignità non per ragioni religiose, non per solidarietà obbligante, ma semplicemente perché ridotto a nulla: l’essere umano sfigurato genera la dignità in chi gli sta di fronte e accetta di incontrarlo, di assumere il peso di un’umanità avvilita, sprovvista dei tratti caratteristici di quella che siamo soliti considerare “dignità”.

 

Questo ci ricorda che il rispetto della dignità umana è fondato sulla nostra comune indegnità: l’uomo afferma la dignità propria e dell’intero genere umano quando onora nell’altro l’umanità degradata, incapace di esibire i tratti propri dell’essere umano. La dignità umana non è infatti un attributo peculiare della persona nella sua singolarità: è una relazione e, come tale, si manifesta nel gesto con cui ci rapportiamo all’altro per considerarlo nostro simile, ugualmente uomo, anche se la forma che questi è venuto ad assumere denuncia un abbrutimento, una non-umanità, un aspetto “disumano”. Rispettare la persona umana nel criminale, nell’assassino, nel pedofilo, nel terrorista, rifiutando di identificarli con il loro crimine; rispettare la persona umana menomata dalle nebbie tragiche dell’Alzheimer, inchiodata al letto o alla carrozzella, smarrita nelle sue facoltà fisiche o intellettuali, senza mai identificarla con la sua infermità che diviene anche “in-formità”: l’essere umano nella sua indegnità richiede rispetto nonostante la sua miseria fisica, psicologica, morale anzi, proprio in essa va riaffermata la perdurante dignità umana.

 

Oggi paiono emergere interpretazioni inquietanti circa il rispetto dei diritti dell’uomo che vorrebbero vincolarli a una preesistente e persistente dimensione morale, ma non si dimentichi che qui non si è nel campo della convenzione sociale per cui a determinati diritti corrispondono precisi doveri e viceversa: i diritti inalienabili di ogni essere umano, recentemente sanciti dalla Carta universale – ma più in profondità iscritti nel patrimonio genetico dell’umanità – sono inerenti alla stessa nascita dell’uomo e non ai suoi comportamenti, perché “tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti”. Questa asserzione fondamentale dovrebbe essere ripresa ogni volta che le tragiche vicende dell’umanità ci portano a considerare le aberrazioni in cui singoli individui o interi gruppi e società cadono. Non certo per assecondare l’abbrutimento e l’indegnità di certi comportamenti, ma proprio per non cedere ad essi nella reazione emotiva o giuridica: anche quando si stabiliscono le sanzioni punitive e coercitive, nessuno può né deve essere ridotto alla disumanità dei suoi gesti. Solo così si salverà la dignità di ogni essere umano e, per ciò stesso, quella dell’umanità intera.

 

Enzo Bianchi

 

Pubblicato su: La Stampa