29 ottobre 2006
di Enzo Bianchi
“L’ospite è come un fratello per l’uomo che abbia anche solo un poco di senno”, ricorda l’Odissea, e Platone nelle sue Leggi ammonisce: “Ogni mancanza verso l’ospite straniero, in confronto con quella che lede i diritti di un concittadino, è gravissima... Lo straniero infatti, isolato com’è dai suoi compagni e dai suoi parenti, è per gli uomini e per gli dèi oggetto di un più grande amore”. Ma oggi praticare l’ospitalità nei modi in uso nel mondo antico o presso le popolazioni seminomadiche del Medioriente, appare sempre più difficile: un’antica consuetudine, presente in tutte le culture come dovere sacro, si sta smarrendo soprattutto in quella che chiamiamo la civiltà “occidentale”. Le cause di tale fenomeno sono certamente molteplici. In primo luogo, il declino della prassi dell’ospitalità è provocato dal carattere consumistico di questa società. Il mercato oggi si è impadronito anche dell’ospitalità strappandola alla gratuità e facendone un affare commerciale, un business: le strutture ricettive e le diverse categorie di alberghi e hotel di fatto sono accessibili solo a chi ha possibilità economiche. Se non si possiede una carta di credito, non si può prenotare una stanza di albergo. A pochi passi dagli alberghi più o meno costosi, sulle panchine dei parchi e sui marciapiedi delle strade si trovano le sempre più folte schiere dei “senza casa”, che si riparano con un giornale o un cartone.
Bisogna inoltre mettere in conto la mutata tipologia della presenza degli stranieri nelle nostre società. Una presenza non più sporadica o stagionale ma consistente, stabile e – a differenza dei flussi migratori conosciuti a partire dal XIX secolo – “plurale”: gli stranieri giungono tra di noi da paesi, culture e mondi religiosi distanti da noi e tra di loro. Di conseguenza, molti degli “autoctoni” si sentono minacciati nella loro identità culturale e religiosa, oltre che in termini di occupazione e di sicurezza, così che gli stranieri finiscono per incutere paura. La paura di chi è diverso e il ripudio di forme culturali, morali, religiose e sociali lontane da noi finiscono per spingerci sempre più velocemente verso la sfera del “privato”, l’isolamento, la chiusura all’altro, magari mascherati da custodia della propria identità.
Va anche riconosciuto che, poco per volta, questo atteggiamento di diffidenza e di difesa tende a inquinare tutti i nostri rapporti, al punto che finiamo per non praticare più l’ospitalità neppure nei confronti di chi possiamo definire, letteralmente, il “prossimo”, cioè chi è “più vicino”, chi vive accanto a noi condividendo la stessa lingua e la stessa cultura. Così le nostre case assomigliano sempre più a fortezze protette da serrature, porte, cancelli, sistemi di allarme, telecamere, recinti e muri: siamo diventati progressivamente succubi di una mentalità che si restringe e si chiude a ciò che appare come “altro”, sconosciuto, nuovo, diverso. Finiamo allora per pensare l’ospitalità soltanto come indirizzata a coloro che invitiamo: ma l’invitato non è un ospite, né le attenzioni usate verso di lui sono ospitalità...
L’altro, il vero altro, infatti, non è colui che scegliamo di invitare in casa nostra – forse anche con il retropensiero di essere poi a nostra volta invitati – bensì colui che emerge, non scelto, davanti a noi: è colui che giunge a noi portato semplicemente dall’accadere degli eventi e dalla trama intessuta dal nostro vivere, perché “l’ospitalità è crocevia di cammini”. L’altro è colui che sta davanti a noi come una presenza che chiede di essere accolta nella sua irriducibile diversità; poco importa se appartiene a un’altra etnia, a un’altra fede, a un’altra cultura: è un essere umano, e questo deve bastare affinché noi lo accogliamo. In altre parole, perché dare ospitalità? Perché si è uomini, per divenire uomini, per umanizzare la propria umanità. O si entra nella consapevolezza che ciascuno di noi, in quanto venuto al mondo, è lui stesso ospite dell’umano, o l’ospitalità rischierà di restare tra i doveri da adempiere: sarà magari tra i gesti significativi a livello etico, ma si situerà su un piano fondamentalmente estrinseco e non diverrà un rispondere alla vocazione profonda dell’uomo, un realizzare la propria umanità accogliendo l’umanità dell’altro.
Il considerarsi ospiti dell’umano che è in noi, ospiti e non padroni, può invece aiutarci ad avere cura dell’umano che è in noi e negli altri, a uscire dalla perversa indifferenza e dal rifiuto della compassione che, sola, può condurci a comprometterci con l’altro nel suo bisogno. Il povero, il senza tetto, il girovago, lo straniero, il barbone, colui la cui umanità è umiliata dal peso delle privazioni, dei rifiuti e dell’abbandono, del disinteresse e dell’estraneità, incomincia ad essere accolto quando io incomincio a sentire come mia la sua umiliazione e la sua vergogna, quando comprendo che la mortificazione della sua umanità è la mia stessa mortificazione. Allora, senza inutili e vigliacchi sensi di colpa e senza ipocriti buoni sentimenti, può iniziare la relazione di ospitalità che mi porta a fare tutto ciò che è nelle mie possibilità per l’altro. Ma dev’essere chiaro che l’ospitalità umanizza innanzitutto colui che la esercita: “Non ha ancora incominciato ad essere un vero uomo chi non ha vissuto la pietà per l’umanità ferita e svilita nell’altro” (Pierangelo Sequeri).
Scriveva Jean Daniélou: “La civiltà ha fatto un passo decisivo, forse il passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis) è divenuto ospite (hospes) ... Il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo”. In effetti, il modo di concepire e vivere l’ospitalità è rivelativo del grado di civiltà di un popolo. Ospitare è uscire dalla logica dell’inimicizia, è fare del potenziale nemico un ospite. Dovremmo imparare a pensare il grado di civiltà in riferimento al livello dell’umanità e del rispetto dell’umanità dell’uomo, non in termini di tecnologia e di sviluppo. Nel praticare l’ospitalità si fa dunque più che mai opera di umanizzazione, come aveva compreso con molta intelligenza già Benedetto, il quale nella sua Regola chiede che il monaco mostri all’ospite “ogni umanità”, mostri dunque ciò che è proprio degli umani.
Ma come praticare l’ospitalità? Proprio l’esperienza della vita monastica che tanto insiste sull’ospitalità, fino a farne la sua diakonia più nobile e sempre all’opera, ci offre una deontologia dell’ospitalità e ci ricorda che ospitare significa creare uno spazio per l’altro, dare tempo all’altro.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Stampa